Alessia Camoirano: “Con The Teenage Mafia Academy volo agli Emmy, ma sogno di tornare in Italia”

Ha 28 anni, si definisce un'artista "fluida" e con il suo primo documentario "vero" ha scalato il mondo fino ad arrivare a essere nominata per uno dei premi più ambiti del mondo. È di Genova, vive a Londra, ha girato il mondo. Ma l'Italia non l'ha voluta. Anche se il prossimo lavoro sarà per Sky

Alessia Camoirano Bruges, padre italiano e mamma colombiana. Segnatevi questo nome, ne sentirete parlare presto, a lungo e parecchio. Non solo perché il suo The Teenage Mafia Academy, documentario di 23 minuti girato per VICE, ora è candidato agli Emmy Awards come miglior lungometraggio documentaristico (Outstanding Soft Feature Story, Long Form). Ha 28 anni, da 10 cerca la sua strada tra giornalismo e documentario, ma anche con opere d’arte che lei definisce “fluide” ma che rispecchiano perfettamente tutta la tavolozza dei colori della sua creatività, del suo istinto, mescolati a un’inquietudine e una profondità mai banali. Ha girato il mondo, prima grazie al padre ingegnere della Ansaldo – dalla Tunisia alla Danimarca dall’Egitto al Ecuador, passando per Dubai e Abu Dhabi, per poi trovare, partendo dalla sua Genova, la strada più giusta per la sua creatività a Londra. Agli Emmy ci arriva con grazie all’intuizione di andare a parlare direttamente, frontalmente, con quel popolo di adolescenti e preadolescenti che soprattutto alle Vele di Scampia rappresenta il vivaio e la manovalanza della camorra. Con il suo sorriso e un carisma niente male, si è fatta largo tra i wannabe boss, per restituirceli così dolorosamente e potentemente simili ai loro coetanei, come già La paranza dei bambini, il documentario Selfie di Agostino Ferrente e in fondo persino la serie tv Mare fuori avevano fatto. Ragazzi che tra Tik Tok e la cocaina cercano se stessi, qualcuno che li ascolti e dia loro importanza, magari un futuro grandioso, sia pur breve e cupo. Alessia Comoirano Bruges, che ha ideato, prodotto, scritto e “interpretato” in prima persona questo racconto, non li ha giudicati. Li ha pedinati, li ha ascoltati, li ha capiti. E quei 23 minuti ti rimangono attaccati addosso, dai contenuti più d’inchiesta a quelli più emotivi, quasi teneri, perché in fondo quei criminali imberbi dentro di loro rimangono ragazzi, abbozzi di adulti con tutte le loro fragilità.

 

Alessia Camoirano, ideatrice, produttrice e sceneggiatrice di The Teenage Mafia Academy, candidato agli Emmy Awards

Alessia Camoirano, ideatrice, produttrice e sceneggiatrice di The Teenage Mafia Academy, candidato agli Emmy Awards

Gli Emmy Awards, il 27 settembre 2023, da protagonista. Ci avrebbe mai creduto?

Ma scherzi? In alcun modo potevo solo lontanamente prevederlo, conta che quando sono uscite le nomination io neanche le stavo guardando! Stavo andando dal dentista a curarmi il dente del giudizio. Non immaginavo di poter essere in lizza, per me quello era un giorno normale, come tanti. Anzi peggiore. Ero lì, in metro, con un dolore assurdo al dente, e mi arriva un messaggio dalla mia produttrice esecutiva, c’era scritto solo congratulazioni e lo screenshot dei candidati, io e VICE in mezzo a colossi come NBC, Times, CBS. Risultato: mi sono messa a urlare nel vagone della metropolitana dalla felicità.

Lei è giovanissima, under 30, ma ha già un curriculum artistico e giornalistico di tutto rispetto. Come nasce questo doppio percorso?

Credo, banalmente, dall’aver avuto l’opportunità di crescere girando il mondo e al contempo di avere una madre che mi ha insegnato ad amare l’arte, parlandomene e facendola anche insieme. La parte più emotiva di me si è appassionata a questa modalità di espressione e crescendo questo rapporto si è trasformato, è diventata parte di me, un modo per superare depressioni e ansie molto grandi. Ho esplorato me stessa attraverso l’arte e viceversa, è un mondo di cui non posso fare a meno. Questa sensibilità, molto accentuata e che mi rendeva molto fragile e incline a sopportare certi dolori, mi ha però anche portato a sviluppare una forte curiosità per situazioni estreme, difficili che notavo durante le mie permanenze all’estero. Non accettavo di subire ciò che vedevo, ho sempre avuto bisogno di capire perché qualcosa accada, cosa provano coloro che ne sono coinvolti, perché dicono, fanno, scelgono certe esperienze. Anche per questo cinematograficamente mi sono da subito appassionata al genere documentario, in primis da spettatrice. Ci ho messo un po’ per capire come unire queste diverse anime finché a Londra prima ho studiato giornalismo e poi ho compreso che dovevo completare la mia formazione con qualcosa che mi desse la possibilità di rappresentare visivamente la mia curiosità, le mie ricerche, e allora mi sono iscritta alla University of The Arts London. Finito il periodo dell’apprendimento è iniziata la sperimentazione sul campo, con stage e lavori da freelance, perché come sai è difficilissimo lavorare per una company: ho fatto molte cose, soprattutto, appunto, nell’ambito dei documentari.

Uno dei ragazzi della Teenage Mafia Academy

Uno dei ragazzi della Teenage Mafia Academy

Per fare The Teenage Mafia Academy non ha cercato infiltrati, una narrazione mediata. Ha preferito un approccio frontale, molto difficile: in una realtà così machista una giovane donna può far fatica ad avere credibilità. E invece…

Quell’approccio per me era irrinunciabile, era la parte fondante del progetto, perché del fatto che questi ragazzi siano lì, lo sappiamo tutti, in Italia. Ma nessuno li conosce davvero, è un popolo giovanissimo che viene romanzato in tv, nei libri, nelle opinioni stereotipate dei talk show, ma è raro che qualcuno vada lì a chiedere direttamente a loro chi sono, dove e come vivono, cosa fanno, come stanno, che futuro immaginino. Ma per come sono cresciuta io nessuna mediazione era possibile, volevo dar loro voce senza giudizi e pregiudizi, in un rapporto diretto. Questo doveva accadere sia che fossi io a mettermi in gioco direttamente, sia che lì fosse andato un altro. Non volevo il giornalista, il camorrista adulto, il poliziotto: ci sono momenti in cui, come con l’associazione di Bruno Mazza, parliamo anche del contesto, ma non potevamo prescindere dal guardare negli occhi quei ragazzi. Senza una sceneggiatura, senza una tesi, solo arrivando lì aperti al dialogo e all’ascolto. Anche perché spesso loro vengono ridicolizzati o al contrario trattati come eroi, non c’è una narrazione equilibrata che li riguardi, sono vittime o carnefici. Io sono stata molto chiara: voglio capire chi siete, portatemi in giro con voi, fatemi vedere i vostri luoghi, vivere le vostre giornate, capire cosa volete essere e diventare. Questa onestà intellettuale, dopo qualche iniziale diffidenza, mi ha permesso di entrare in quel mondo, di farlo davvero. Sono stati sei giorni di riprese, interviste, camminate molto intensi, se penso a quanto materiale abbiamo tagliato, quanto è stato difficile lasciar fuori esperienze uniche prima ancora che materiale cinematografico eccellente, soffro tutt’ora. Ma il format e i tempi erano quelli, 25 minuti circa, e probabilmente è stato anche meglio così. E ringrazio Victoria Fiore – che è di Napoli, e penso che questo abbia aiutato molto -: al montaggio è stata incredibile. Senza di lei non ce l’avremmo fatta.

Alessia Camoirano con Bruno Mazza, uno dei fondatori dell'associazione Un'infanzia da vivere

Alessia Camoirano con Bruno Mazza, uno dei fondatori dell’associazione Un’infanzia da vivere

Una cosa che emerge è che questi ragazzi, in alcuni casi bambini, non sono ostinati e contrari alla società. Anzi, hai l’impressione, vedendo il documentario, che vorrebbero solo che il resto del mondo li ascoltasse

Ma certo. Loro vorrebbero farsi sentire, come ogni adolescente. Guardali. Ci sono anche dei momenti, non so come dire, teneri: uno di loro dice all’altro, più piccolo, “bambino, tirati su il passamontagna” come un fratello maggiore si preoccuperebbe del minore, che non prenda freddo. Solo che lì lo invitava a non farsi riconoscere. Non c’è aggressività in quelle parole, ma premura. Anche la loro diffidenza nei miei confronti non era di origine criminale, ma adolescenziale. Avevano quel modo di respingerti tipico dei ragazzi a quell’età: mi ha aiutata esserne uscita da poco e aver avuto un’adolescenza difficile, sia pur non comparabile alla loro, ma leggendomi dentro comprendevano che avevo vissuto dolori e travagli affini ai loro. E poi ho una sorella di 14 anni e quando gli parlavo, non pensavo di rivolgermi a dei giovanissimi camorristi, ma a lei e ai suoi amici. Questo ha fatto sì che superato il muro, la barriera tra noi, non abbiano più smesso di parlare, a telecamere accese e spente. E mi portavano ovunque, avevano bisogno di una condivisione totale. Anche perché si sentono piccoli, persino indifesi di fronte a come li mondo li considera. Il loro è un disagio che riguarda tutti noi.

Il loro dolore sembra simile a quello di una generazione intera che negli ultimi 10 anni ha fatto sì che i suicidi, dal dopoguerra sempre rimasti su numeri simili e costanti, siano cresciuti esponenzialmente (e dopo la pandemia hanno toccato picchi inimmaginabili). E testimoniano questo disagio anche le violenze di gruppo di Palermo e Napoli o le risse di massa nelle metropoli italiane ed europee, con decine di ragazzi che si danno appuntamento per picchiarsi, o peggio.

Non sopportano essere delle macchiette per tutti, considerati dal mondo come esseri umani meschini, di serie B, caricature di adulti altrettanto grotteschi. A questo reagiscono mettendosi nell’angolo in cui li hanno costretti e attaccando chiunque. Ma è solo un modo per farsi sentire, per catturare l’attenzione, per avere una voce. Esattamente come tutti gli adolescenti, fanno, ma magari loro maneggiano coca e pistole. Loro si trovano a combattere la stessa battaglia dei loro coetanei dove si può vivere o morire per il combinarsi di banali coincidenze, dove la facilità con cui compi reati è irrisoria. Li ho sentiti vicini, ricordo bene quanto sia lacerante la sensazione che nessuno ti ascolti. E francamente non penso sia un problema solo loro, ma come dici tu di tanti, troppi loro coetanei. Di tutti, probabilmente.

Colpisce molto una cosa del tuo documentario: siete riusciti a rendere bellissimo l’inferno, senza eliminarne le fiamme. Scampia qui viene mostrata nella sua estetica di degrado ma anche in una sua perversa bellezza. Come avete fatto?

Guarda, questo è un merito, ovviamente, soprattutto di Richard Powell Smith, il direttore della fotografia, e di Jamie Tahsin, il regista. Insieme abbiamo deciso, appena arrivati, che era giusto dare quel tipo di estetica al film. Non so dirti com’è successo e come ci siamo arrivati, è stata una sensazione comune e contemporanea provata da tutti e tre. Come se sapessimo fin da subito cosa filmare e come, è davvero difficile da spiegare. Ma credo che chi sia stato lì può capirmi, è quasi un riflesso automatico, che io provo anche in alcuni dei quartieri più difficili di Londra. Certi luoghi hanno quel tipo di degrado pieno di dettagli dissonanti, che nascondono un sottotesto: siano dei murales o delle scritte, una macchina in fiamme o un campo di calcetto. Ed è in quei particolari che leggi una storia più grande, ogni immagine, ogni angolo rappresenta qualcosa di molto più complesso. Penso ai ragazzini di Bruno Mazza, uno dei fondatori dell’associazione di un’infanzia da vivere (che lavora sulla “maledetta” Caivano, luogo di droga, pedofilia e stupri ma anche e soprattutto di chi prova a combatterli – ndr), che lavorano con la farina e subito dopo a quelli di Scampia che fanno gesti simili la cocaina. Immagini che dovevano viaggiare insieme, parallele. Napoli è una città meravigliosa e terribile, poetica e distruttiva, e noi dovevamo far passare tutta quella bellezza e quell’oscurità, quella poesia della distruzione e della meraviglia. Ha qualcosa della mia Genova, non a caso muoio dalla voglia di lavorare anche lì.

Una scena del documentario

Una scena del documentario

Ha meno di 30 anni e una nomination agli Emmy Awards. Alessia Camoirano come e dove si vede fra 10 anni?

Il sogno è avere la mia casa di produzione, mi piacerebbe tantissimo, magari insieme a Jamie. Ne stiamo parlando, vorrei avere qualcosa che mi permetta di realizzare ciò che con grande fatica spesso mi sono vista respingere da troppi. Anche VICE, di cui stimavo tanto la linea editoriale che probabilmente così come la conosciamo non ci sarà più, mi ha rimbalzato per anni prima di lavorare insieme. Adoro sviluppare un’idea, esserne l’autore, ma anche renderla possibile. Poi sì, anche presentarla in prima persona, davanti alla macchina da presa, ma solo se necessario. Voglio sicuramente continuare a lavorare con i documentari. E mi piacerebbe tornare in Italia. Me la ricordo la notte prima di partire per Londra, la quantità di sogni che avevo, dal lavorare per VICE, anche solo come runner, allo sperare di vedere uno dei miei progetti accettato dalla Rai, che invece non mi ha mai filata. Magari adesso andrò a Mediaset, chi lo sa, hanno detto che non vogliono più il trash! Comunque ripensando a tutti quei no, o addirittura peggio, ai tanti che ti ignorano, pensare che ora sono qui, a fare un’intervista perché sono candidata a uno dei premi internazionali più importanti del mio settore, è impagabile.

Ecco, mi piacerebbe tornare e fare ciò che amo nel mio paese: finora mi ha dato fiducia solo Ahora! di Marco Pollini, per cui lavoro ancora in sceneggiatura e produzione per alcuni progetti.

Però ti confesso una cosa: quando ho visto il nome Alessia Camoirano Bruges sui titoli di The Teenage Mafia Academy mi sono emozionata ancora di più che per la nomination agli Emmy. I premi sono meravigliosi, ma fare ciò che vuoi e come vuoi, lo è di più.

Alessia Camoirano con il "cast" del documentario

Alessia Camoirano con il “cast” del documentario

Agli Emmy andrai? Anche prima, per fare un po’ di “campagna elettorale”?

Le date sono un po’ difficili, perché sto lavorando a un altro progetto, ma il 27 settembre, alla cerimonia di premiazione certo che ci sarò, chissà quando ricapita. Intanto meno male che le categorie news e documentari non sono state travolte dagli scioperi, sarebbe stata una beffa! Mi sembra ancora un sogno, il primo documentario che scrivo e produco a certi livelli finisce a giocarsela tra i grandi autori e i grandi player.
Sono felice, lasciamelo dire.

E noi più di te. E aspettiamo con ansia che torni a lavorare in Italia. Ora però non possiamo non chiederti di che parlerà questo nuovo progetto

Posso parlarne in modo molto generale perché Sky deve ancora fare l’annuncio: è sul narcotraffico in un posto specifico in Europa. E ne sono autrice e produttrice: è un docudrama, quindi qualcosa di diverso dagli altri lavori che ho fatto, c’è anche una parte di finzione, più narrativa.