Alda Merini, folle d’amore. La poetessa che visse nei manicomi, che cantò dei matti e di se stessa

Laura Morante interpreta la scrittrice milanese nel film di Roberto Faenza in anteprima fuori concorso alla 41esima edizione del Torino Film Festival. La storia di una donna che nella reclusione trovò la sua voce

Impossibile separare il lavoro di Alda Merini dalla sua esperienza in manicomio. Sarà perché uno dei suoi corpus più illustri, La terra santa, nasce proprio dall’esperienza della sofferenza attraversata nei suoi continui periodi di internamento. Tre in tutta la sua esistenza, la prima volta a sedici anni nel 1947. Incursione nella vita dei matti che si è ripetuta dal 1964 al 1972 nell’istituto Paolo Pini di Milano e poi ancora a Taranto nel 1986. Era del 14 febbraio 1904 la legge numero 36 sulla cura e la custodia degli alienati. Il ricovero coatto di “persone pericolose a sé e agli altri e di pubblico scandalo”, di cui Merini divenne una dei massimi rappresentanti, forse solo a causa, come dichiarò anni dopo, di una depressione post partum.

Folle d’amore di Roberto Faenza, in anteprima al Torino Film Festival 2023 e con protagonista Laura Morante, ripercorre i motivi e le cause di un trattamento psichiatrico che, nel secolo scorso, (non) veniva risolto con l’allontanamento dalla propria famiglia e la prigionia infruttuosa in luoghi di paura, terrore e elettroshock.

“La visione della follia è molto personale, il manicomio poteva regalarla al paziente, è successo anche a me, fino a imparare che ci si può vivere dentro”, spiegava la poetessa milanese in un’intervista a Sergio Zavoli tratta dal libro Il dolore inutile, la pena in più del malato, scritto insieme a Umberto Rondi e uscito nel 2002. “Invece, fuori, la follia viene castigata, i malati sono veramente perseguitati. Diciamo, allora, che la vera follia è la normalità, secondo me”.

“Sono nata il ventuno a primavera”, scriveva Alda Merini. “Ma non sapevo che nascere folle, aprire le zolle, potesse scatenar tempesta”. Era il 1931 e la poetessa crebbe tra le crepe di due guerre mondiali e un fascismo imperante, incapaci di giustificare i tormenti lasciati nelle vite delle persone, decisi a punirli dopo tutti i mali che già avevano causato. Di certo la bambina Alda covava di suo un misticismo che venne frenato e, ancora una volta, punito dalla madre. Una ragazzina sui generis, chiamata da tutti pazza perché non sempre si è in grado di dare un nome a ciò che non si riesce ad afferrare. Alda Merini era così.

Era piena di vita, per questo venne fatta internare. Non sapevano come contenerla fuori, allora hanno deciso di rinchiuderla dentro. Merini aveva imparato la cura e l’attenzione alla grafia osservando il lavoro del padre Nemo, arrivando a vincere a dieci anni il premio Giovani Poetesse Italiane. Era la prima della classe. Ma a dodici anni, quando fu la povertà a bussare, Alda non poté proseguire col ginnasio. Non ci volle molto perché divenne poetessa con tutti i crismi. È a quindici anni che Giacinto Spagnoletti, storico e scrittore della letteratura italiana, le pubblica la prima raccolta. L’anno precedente al primo ricovero.

Alda Merini: la vita privata, la vita rinchiusa, la vita dopo

Nel 1953 c’è il matrimonio col panettiere Ettore Carniti e la poesia non riesce a passare in secondo piano nemmeno con le figlie a cui dover badare (la coppia ne avrà quattro: Emanuela, Flavia, Barbara e Simonetta). E nel 1961 la seconda esperienza in manicomio, la più lunga, quando invece di curare la mente, alle persone venivano somministrati medicinali per intontirli e docce fredde per addolorarli. Per le donne, poi, le ragioni potevano essere disparate.

A Ida Peruzzi, moglie del più noto letterato Emilio Salgari, venne diagnosticato un “erotismo fisiologico esagerato”. Ma bastava anche solo mostrarsi mascoline, ribellarsi ai soprusi della propria famiglia o uscire dai canoni richiesti dalla società (maschilista e patriarcale) per venire eliminate. Via le matte, via il problema. Una galera istituzionalizzata, che comprendeva ritiro di oggetti personali, assegnazione di un numero e un’uniforme da portare. Nulla poteva essere eversivo, pena vere e proprie ripercussioni simili a torture.

Incapaci di curare l’anima, nei manicomi respingevano la vita. Eppure è lì che Merini l’ha trovata, quella poetica sicuramente. Tra pause e ritorni, esce dal Paolo Pini nel 1972. Nel 1979 ricomincia a scrivere, è del 1984 La terra santa, e quando nel 1981 Ettore muore si sposa con Michele Pierri e si sposta a Taranto. Sono composizioni stese al sud La gazza ladra e L’altra verità. Diario di una diversa, primo libro in prosa. A Milano torna nel 1986 grazie all’editore Vanni Scheiwiller, con cui pubblica Testamento e Fogli bianchi.

L’intenzione di Folle d’amore è di raccontare il recupero di una carriera poetica, messa sotto le luci e le ombre di un’artista al tempo dimenticata. Che è rimasta a vorticare per i corridoi dei manicomi che le hanno fatto da casa e che ha ricevuto i meritati riconoscimenti solamente negli anni a venire. Nel 1993 riceve il Premio Librex-Guggenheim Eugenio Montale e la sua carriera è più fervente che mai. Scrive libri, partecipa a programmi tv, tra tutti il Maurizio Costanzo Show, e viene travolta dal successo editoriale.

Ma resterà impossibile separare Merini da un trattamento ingiusto, forse necessario, ma non nei termini voluti dalla legge 36 del 1904. È del 13 maggio del 1978 la legge Basaglia, che sancì la chiusura dei manicomi e riformulò il metodo di cura per la sanità mentale. Ed è il giorno di Ognissanti, il 1 novembre del 2009, che Alda Merini muore. “Non ho paura della morte ma ho paura dell’amore”. Entrambi aspetti che, ancora oggi, la tengono in vita.