“Il motivo del perché faccio cinema non lo svelerò adesso, aspetto il terzo film”. Guardando al suo primo lungometraggio, Amen fuori concorso al 41esiamo Torino Film Festival, diremmo che il regista e sceneggiatore Andrea Baroni si affidi al mistero della fede.
Probabilmente, però, si tratta solo del mistero del cinema. Classe 1983, nato a Roma e frequentata buona parte della sua esistenza a contatto con le suore – asilo, elementari e medie tutte e tre svolte al Sacro Cuore del Prenestino – il cineasta ha avuto l’illuminazione per scrivere la sua opera di debutto proprio come avesse avuto accesso a uno dei segreti di Fatima.
“Stavo cercando una location per un cortometraggio che dovesse sembrare girato in Turchia. Arriviamo in questo casale, lo guardo, e non lo trovo minimamente adatto. Arriva la notte e non riesco a smettere di pensare a quel luogo. È così che è nato Amen”.
Due settimane di scrittura senza sapere minimamente dove la storia lo avrebbe portato e che finisce per catapultarlo in un’entroterra italico dove crescono gli alberi di ulivo e a terra cadono i fichi. Al centro una piccola famiglia di persone – specchio di una società occidentale più grande – confinata in una realtà ristretta e opprimente, osservata e osservante dei più stringenti e punitivi dettami della religione.
“Ma il film non parla di questo. Almeno, non solo. Di certo il background mi appartiene, ricordo le estati da ragazzino nella casa al mare dei nonni a Torvaianica. Ricordo gli insegnamenti della scuola e un certo attaccamento alla fede della mia famiglia, di mia madre in particolare. Era però il concetto di limite ciò con cui mi volevo confrontare. La religione e la sessualità sono venuti dopo, come conseguenza”.
E i versetti che i personaggi citano pure. Una ricerca avvenuta esattamente come la stesura del racconto di Amen. Reminiscenze di studi e precetti passati, che poi Baroni ha indagato e inserito man mano – in fondo possiede e ha letto una copia della Bibbia di Gerusalemme, ma “se dovessimo aprire un capitolo sul mio interesse per tutte le religioni, che ritengo al pari della filosofia, non finiremo più di parlare”.
Amen, produzione indipendente
Due settimane di scrittura, due di pre-produzione, altre due di riprese e circa un mese e più di post-produzione – in quest’ultima subentra anche Fandango, che dopo aver visto il film ha voluto investirci e distribuirlo.
La creazione di Amen è totalmente auto-prodotta, ai limiti quasi del “non” prodotto, visto che il lavoro è stato sostenuto interamente dagli sforzi e la volontà di Andrea Baroni, affidandosi solamente a se stesso e alla fiducia delle persone che hanno deciso di collaborare al progetto. “Ho sfruttato anche l’onda della rinascita post-pandemia. La gente aveva voglia di fare e questo ha permesso al film di creare un gruppo entusiasta e coeso”, che ha trascorso insieme giorno e notte nel casale-fonte di ispirazione.
Le protagoniste di Amen sono tre sorelle: Sara, Ester e Miriam. Interpretate da Grace Ambrose, Francesca Carrain e Valentina Filippeschi. Le tre giovani, nel pieno dell’adolescenza, vivono assieme al padre e alla nonna sotto una fortissima influenza religiosa, e ogni loro azione può facilmente diventare sinonimo di peccato. In questo clima di penitenze e preghiere forzate, punizioni e costrizioni, a scombussolare gli equilibri è l’arrivo dell’”uomo”, il cugino Primo (Simone Guarany), con cui Sara e Ester andranno sempre più a fondo nella scoperta del piacere, dei loro corpi e, per la loro famiglia, dei peccati.
“Sara rompe il limite con un cambiamento che è interiore e esteriore al suo corpo”, spiega Grace Ambrose, ventisette anni e anche lei con radici nella capitale, coetanea della collega Francesca Carrain, originaria però di Treviso. “È obbligata a farlo. Inizia a percepire sensazioni e contatti fisici diversi, sviluppa un suo sguardo sul mondo. Ma lo fa portandosi un pesante senso di colpa sul cuore. In questo la capisco bene, anche io tendo a giudicare spesso me stessa”.
Una parte per l’attrice – prossimamente nella serie Non ci resta che il crimine (“In cui interpreto un altro esempio di indipendenza femminile”, dichiara in riferimento al ruolo della madre di Gianmarco Tognazzi da giovane) – che l’ha portata a riflettere su “quanto possono essere feroci i legami umani. Penso al libro L’educazione di Tara Westover, che ho usato come riferimento per preparami al ruolo. La protagonista è una giovane appartenente a una famiglia di mormoni che, partendo da autodidatta, finisce per iscriversi al college e trova la sua indipendenza proprio nell’educazione. La famiglia ti rende ovviamente chi sei, insieme anche allo stare lontano da cosa hai respirato per tutta la vita”.
La famiglia è un punto nevralgico per un regista e sceneggiatore che ne riconosce l’influenza e la curiosità, lui che alle cene di Natale, fin da bambino, interrogava gli adulti e faceva domande scomode per cercare di capirli (e forse così capirsi?) meglio.
“È la cellula prima della nostra cultura”, va in profondità Baroni. “È un nucleo preesistente che detta legge. La domanda che mi pongo spesso è: come è possibile non ripetere gli stessi errori dei padri? Credo che alla fine tutti navighiamo su questa sorta di venerazione e paura rispetto a ciò per cui possiamo essere molto simili ai nostri genitori. Prima cercavo di più l’approvazione dei miei, ora ho creato il mio di nucleo (è papà di due bambini di quattro e un anno e mezzo, ndr) e sento che non devo avere il loro ok per poter raccontare mondi che sono distanti da loro”.
Corpo, sangue e religione
E con Amen, regista e cast, erano distanti da tutto. Tra terra, polvere e vegetazione, la prima scena che ha dovuto girare Francesca Carrain è in mezzo ad un orto, e con cui l’attrice ha “tolto il cerotto” vista la natura sensuale e sessuale del contenuto. “Non è la sequenza in cui sono più esposta a livello fisico, ma è quella sicuramente in cui mi sono sentita più nuda. Non era per il gesto in sé (Ester che si slaccia i bottoni della camicetta, ndr), ma per lo sguardo fisso e l’atteggiamento provocatorio che dovevo ostentare. Poi ho pensato: se questo è l’inizio, tanto meglio, vuol dire che il resto sarà in salita”.
Ester di Carrain è una “predatrice” e come tale è stata rappresentata. Istintiva e animalesca, l’interprete ha giocato col corpo (e il suo passato da ballerina, che l’aiuta molto) per accendere la fiamma di una giovane che cerca di scappare dalle trappole della sua famiglia, sapendo benissimo quali saranno le ripercussioni.
“Le religione, in Amen, è un fatto. A volte non riusciamo a darci delle risposte, e credere può essere sia bello che una forma di deresponsabilizzazione per poter non decidere cosa fare, seguendo solo ciò che ci viene detto. Ester cerca di sfuggire a simili imposizioni anche usufruendo del corpo”, analizza l’attrice.
“Nel film non cercavamo una cifra estetica, il personaggio aveva qualcosa di selvaggio che esprime muovendosi e bramando una sessualità che possa rompere le imposizioni del padre e della nonna. È istintiva. E molto giovane. Rivedo un po’ dell’istinto che tiravo fuori qualche anno fa e che crescendo ho imparato a maneggiare. È un po’ una croce, un po’ una delizia”.
Impossibile non vedere nell’esistenza di Sara e Ester un pattern che troppo spesso riflette la realtà, seppur in termini e circostanze differenti. Una sottomissione femminile che rischia di essere portata – ancora una volta torna questo concetto – al limite. “È una realtà presente e reale. Noi donne lo sappiamo. Tutte abbiamo avuto un momento nella vita in cui ci siamo sentite controllate. O semplicemente giudicate in quanto tali”, ha affermato Ambrose.
Le fa eco la collega Carrain: “Ciò che mi ha stupito di Amen è come il potere esercitato sulle ragazze non sia solo di un uomo, ma di una donna che è stata influenzata da un retaggio secolare. È inquietante. Mi fa venire in mente la performance di Marina Abramović, in cui ha messo su un tavolo una serie di oggetti che le persone potevano utilizzare su di lei. Prima hanno cominciato con le piume, poi le carezze si sono trasformate in lividi e dolore. Eppure, chi poco prima le aveva usato violenza, quello dopo non riusciva a camminare nel museo guardandola negli occhi. Purtroppo ogni giorno vediamo fino a dove può spingersi l’essere umano”.
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