Il cinema civile di Michele Riondino: “La classe operaia non è andata in paradiso. Sta con i padroni e ha perso dignità”

Al cinema dal 30 novembre, il potente esordio alla regia dell'attore tarantino, Palazzina Laf, è stato presentato alla Festa del Cinema di Roma: "Sono figlio di operai e ci tengo al mio passato. Ma la classe operaia oggi preferisce schierarsi dalla parte dei carnefici piuttosto che essere percepita come parte lesa". L'intervista con THR Roma

Profilo greco, piglio da spartano: Michele Riondino è un condottiero. Alla Festa del Cinema di Roma con il suo esordio da regista, Palazzina Laf, l’attore tarantino, 44 anni, porterà in sala dal 30 novembre il risultato di un impegno politico e civile durato 7 anni (e ancora in corso) intorno alle vicende dell’acciaieria Ilva di Taranto. 

Un gran bel film, Palazzina Laf, che esplora con il linguaggio del cinema civile – Elio Petri, Francesco Rosi, ma Riondino cita anche “I compagni di Mario Monicelli e il Fantozzi di Luciano Salce” – il primo caso di mobbing di massa italiano, quello ai danni dei lavoratori dell’Ilva a fine anni Novanta. Settantanove impiegati che, rifiutando il demansionamento imposto dal presidente del cda dell’azienda, Emilio Riva, vennero trasferiti in una palazzina senza alcuna mansione precisa, in balia di depressione e follia, considerati “fannulloni” dai loro stessi colleghi, ignorati dai sindacati colpevolmente silenziosi.

“Fu una forma di alienazione e di tortura – ha raccontato lo sceneggiatore Maurizio Braucci, in conferenza stampa Roma con Vanessa Scalera e Giuseppe Palma, uno dei confinati (nel cast anche Paolo Pierobon e un trasformista Elio Germano) – ma anche un monito per gli altri lavoratori, per impedire loro  di ribellarsi. Non essendo ancora nota come forma di tortura industriale, alcuni pensavano addirittura che fosse un premio”.

Girato in cinque settimane, gli interni a Piombino e gli esterni a Taranto, con le musiche di Teho Teardo e una canzone (La mia terra) di Diodato, Palazzina Laf non fa sconti a nessuno: ai padroni – condannati nel novembre del 1998 in tutti i gradi di giudizio – agli operai, al sindacato che fu “silente e morbido, accettando l’adeguamento del proprio ruolo nell’azienda”.

Riondino, famiglia operaia, sa bene di cosa parla. “Ho voluto fare un film politico, ideologico e di parte, per dire la mia verità. – risponde al telefono, dal set internazionale della serie de Il Conte di Montecristo, girata da Bille August – E l’ho fatto attraverso il mio mezzo e la mia grammatica, raccogliendo verità oggettive dai diretti testimoni e dalle carte processuali”. 

Quali carte? Quali testimoni?

Sono risalito alla lista dei confinati della Palazzina Laf: c’era tutto. Nomi, cognomi, ruolo, reparto e numero di telefono. Mi è stata fornita da Claudio Virtù, un altro di loro, che si autoprodusse nel 1999 un libro che mi è servito come punto di partenza e che vorrei che adesso completasse. Ho raccolto personalmente le testimonianze di una dozzina di confinati. Poi ho chiesto anche ad altri operai, incluso mio padre.

E che le ha detto?

Mi ha dato la versione degli operai: cioè che i confinati fossero 79 nullafacenti che non amavano lavorare, che meritavano di essere puniti e si lamentavano dell’assurdo, perché portavano a casa lo stipendio senza fare niente. E io mi sono chiesto: perché un operaio non capisce la gravità di una situazione del genere?

Perchè?

Perchè l’operaio non sceglie il proprio lavoro. L’operaio nella catena di montaggio dell’ex Itasider, cioè l’Ilva, che lavora in quelle condizioni, con quegli impianti, non può amare il suo lavoro. L’idea di avere uno stipendio senza spezzarsi la schiena è del tutto auspicabile. E questa è esattamente la chiave di lettura con cui ho costruito il personaggio che interpreto, Caterino.

Michele Riondino e Vanessa Scalera

Michele Riondino e Vanessa Scalera

Quello che vediamo nel film è tutto vero?

Non ho inventato nulla. Quelle persone per davvero facevano ginnastica nei corridoi, pregavano, cantavano, giocavano a mosca cieca, perdevano la ragione. Per davvero venivano scortati dalle guardie giurate perché gli altri li vedessero, per davvero venivano relegati a mensa su sedie dove tutti potessero guardarli. Ho sentito storie impossibili: la chiave grottesca mi è servita per renderle credibili, ma è tutto vero.

Cosa ci dice questa storia del mondo del lavoro di oggi?

Tante cose. Intanto: perché la storia di quegli operai non si conosce? Quante altre storie legate a quell’acciaieria dovrebbero essere raccontate? Io sono figlio di operai, e anche se sono identificato come un attivista e un ambientalista, nasco da una famiglia operaia, appartengo alla cultura operaista e ci tengo al mio passato. La storia della Laf, e in generale i problemi di Taranto, si sviluppano intorno al ricatto occupazionale. Io, figlio primogenito di un operaio, dovrei essere destinato a sostituire mio padre: i tarantini sono carne da macello, anzi carne da altoforno. Ed è così che la classe operaia oggi ha perso contatto con la realtà e preferisce – come fa nel mio film Caterino – schierarsi dalla parte dei carnefici piuttosto che essere percepita come parte debole e lesa. Il contrario del film di Elio Petri: la classe operaia non è andata in paradiso.

Anche suo fratello ha lavorato all’Ilva. Perché ha smesso?

Caterino lavora nello stesso reparto di mio fratello, cui a un certo punto non hanno più rinnovato il contratto. Volevo mostrare quel reparto nel film, far vedere i lavoratori che mangiano, bevono e respirano là dentro: come mio fratello, tanti di loro hanno sviluppato una patologia di cancro al colon. Un monito: dobbiamo chiederci cosa succede alle aziende prima che entrino in crisi. Dovremmo chiederci quali regole vigono all’interno, perché spesso è come se là dentro ci fosse un’altra costituzione, diversa da quella italiana.

Perché il cinema civile oggi non si fa più?

Me lo chiedo spesso. Io non credo che al nostro cinema manchino stimoli o che sia in crisi artistica. Forse in questo periodo storico registi e sceneggiatori semplicemente vogliono raccontare altro. A me piaceva l’idea di narrare una storia e un contesto. Seminando indizi che dicessero qualcosa anche di oggi.

Michele Riondino sul set

Michele Riondino sul set

Quali?

Caterino vive in una masseria dove muore una pecora, e per me quella è la metafora di Taranto. Il giudice che raccoglie le testimonianze è una donna, in omaggio alla giudice Todisco, che nel 2012 ha messo sotto sequestro l’Ilva. E poi racconto il passaggio della fabbrica da pubblico a privato, mentre oggi accade esattamente il contrario. Come un gioco di matrioske.

Un altro film alla Festa del Cinema di Roma, Bangarang di Giulio Mastromauro, parla di Ilva. L’ha visto?

No, ma sono molto contento che si sia creata questa bella coincidenza. Però non illudiamoci. Non stanno cambiando le cose. Io dal 2012 parlo di Ilva nelle pagine degli spettacoli dei giornali. E il fatto che se ne parli negli spettacoli, e non in cronaca, è già una notizia.