Amor, l’altra faccia di Roma: “È anche una città mamma, capace di curare traumi”

Dopo Sollima, Costanzo, Castellitto e Ramazzotti, anche Virginia Eleutieri Serpieri, regista al suo esordio, ha deciso di raccontare la capitale: in modo inedito, pur partendo da una tragedia, la morte della madre. "Ricominciamo a sognare Roma, per cambiarla"

“Bisogna ricominciare a sognare Roma per poterla cambiare”. Lo diceva Antonio Cederna, urbanista e giornalista, lo ripete Virginia Eleutieri Serpieri, una dei registi che a Venezia hanno raccontato Roma con lo strumento più vicino possibile al sogno: il cinema. Alla Roma senza scampo di Sollima (Adagio), alla Suburra borghese di Castellitto (Enea) e alla Roma viziosa di Costanzo (Finalmente l’alba), con il suo film d’esordio Serpieri aggiunge una terza via: la Roma accogliente, femminile, curativa del suo Amor, “città d’acqua” che ripara le ferite, che ricuce i traumi. Città donna. Città mamma.

La storia di Amor, un magnetico “atlante di immagini” fuori concorso al Lido,  prende le mosse da un evento traumatico nella vita della regista: la perdita della madre Teresa, nel 1998, suicida nel Tevere. “L’esigenza di raccontare questa storia è arrivata subito dopo la sua morte”, spiega Serpieri, 49 anni, formazione da fonico al Centro Sperimentale, figlia del celebre fumettista Paolo. “Già allora studiavo cinema all’università, ma non avevo né l’esperienza né gli strumenti per girare un film. Ho realizzato un primo corto nel 2004, ma ho imparato tutto da autodidatta. Nei miei lavori c’è sempre mia madre. Ma è la prima volta che mi metto così a nudo”. 

Cinque anni per preparare il film, raccogliere il materiale (cartoline, fotografie, disegni: “Il mio metodo è l’accumulo”), registrare i suoni (dell’acqua, del fiume, delle fontane), sempre guidata dalla stessa, fortissima, suggestione: un sogno ricorrente, che la regista racconta – in voice over – nel film. “Da quando lei è morta, sogno di gettarmi anche io nel fiume. Sotto l’acqua tutto è buio  e inospitale, ma io mi accanisco e scendo ancora più giù, verso la luce. Quella luce, nel sogno, sono fotografie di mia madre, scomposte e rotte. Il cinema mi ha permesso di andare in fondo a quel fiume senza perdere il contatto con la vita”.

La Roma di Amor

La Roma di Amor

Non è tuttavia la madre – interpretata dall’attrice Odetta Tunyla – a dominare il racconto, ma la città di Roma. “Nel mettere in scena la storia di mamma, sentivo la città come un muro tra me e lei. Un giorno mi sono avvicinata al fiume, con cui ho inevitabilmente un rapporto traumatico, e ho pensato: mia madre è qui. Si è fusa nell’acqua, è tornata nel grembo materno. Mia madre, ho realizzato, era nella città. Allora ho cominciato il lavoro, raccogliendo immagini di Roma negli archivi: una ricerca prima dolorosa, poi molto positiva. Roma mi ha dato una consolazione enorme: i pezzi rotti di quelle foto sono diventati un vaso nuovo, Amor”.

Roma materna, Roma donna: “Può essere una città cruda, ma possiede una dolcezza e un grande passato, che propone tutta un’altra immagine, molto femminile. Penso a Rea Silvia, a Clelia che salvò le compagne tuffandosi nel fiume. Nella Roma antica, sulle monete era raffigurata una donna come sinonimo di felicita pubblica. Felicità, non violenza”.

Una violenza molto spesso al centro della narrazione sulla Capitale, che il cinema ha raccontato negli ultimi anni inquadrando la brutalità tossica della periferia (sempre a Venezia: Felicità di Micaela Ramazzotti). La Roma di Serpieri, invece, è un’inedita Roma del centro storico, letteralmente all’ombra del Colosseo: “La periferia è stata raccontata in modo molto autentico dal cinema. Ma il centro storico ce lo siamo perso, è diventato invisibile: una cartolina. Mi sono sforzata di guardarlo non in quanto attrazione turistica, ma come un luogo che potesse dare consolazione, curare un trauma. Diceva Cederna che bisogna ricominciare a sognare Roma per poterla cambiare. Io ho dovuto immaginare Amor per tornare a vederla”.