Mostri in Laguna: paura e delirio su Favino (ma qualcuno si è andato a vedere cosa ha detto davvero?)

Tutti dicono e scrivono la stessa cosa sull'esternazione in merito ai "ruoli italiani agli italiani". Ma a ben vedere, il vero tema è quello della supremazia delle cinematografie e dell'incapacità dell'industria italiana di sedersi al tavolo

Ogni tanto il vostro voyeur filmico di fiducia si distrae, e invece di guardare i film, guarda i social. Oggi, a scorrere Facebook, c’era da vomitare. Quasi tutti, anche addetti ai lavori, scrivevano LA STESSA COSA (perché i social non sono solo un ricettacolo di sciocchezze, ma sono soprattutto un moltiplicatore di quelle stesse sciocchezze). Parliamo, l’avrete indovinato, di Pierfrancesco Favino. Il quale avrebbe detto (condizionale d’obbligo) che i ruoli di italiani vanno fatti da italiani, e quindi Adam Driver non avrebbe dovuto interpretare Enzo Ferrari nel film di Michael Mann. E tutti, ma proprio TUTTI o quasi, a dire le stesse cose: e Marlon Brando nel Padrino (che per altro è un film americano che si svolge in America, vabbè)? E Burt Lancaster nel Gattopardo? E Alain Delon in Rocco e i suoi fratelli? E Anthony Quinn in La strada? E così via.

Ok, abbiamo assistito al vostro sfoggio di cultura. Però, avete persino visto dei film, complimenti. C’è anche chi accusa Favino di aver difeso “l’identità italiana” subito dopo aver interpretato un ufficiale della Marina Italiana, quindi fascista, del 1940: e gli dà, nemmeno tanto sottilmente, del fascista. Ma qui entriamo nel campo della psichiatria, che non ci compete. Restiamo al cinema – e se non vi spiace al giornalismo, categoria quanto mai bistrattata. Quasi nessuno si è preoccupato di andare a vedere o a sentire ciò che Favino ha detto davvero. L’unico che, come spesso gli capita, ha pubblicato su Facebook un post giusto è stato Daniele Vicari, regista e intellettuale di grande intelligenza.

Ne citiamo alcune righe. In primis Vicari evidenzia che Favino parla fondamentalmente “della relazione tra la nostra cinematografia e quella americana, per me personalmente continua e profonda fonte di ispirazione, ma fraintesa in quanto dominante sul piano dell’immaginario. Però dico: ci si può lamentare di essere sudditi volontari? È serio? Io amo tanto Chaplin e Ford quanto Ejzenstejn, tanto Tarkovskij e Kurosawa quanto Scorsese, Monte Hellman e Kubrick, tanto Ousmane Sembene quanto Kim-Kiduk ecc. ecc.”.

Inoltre, sottolinea quanto Favino abbia detto “una cosa che pensano in tanti, e che io francamente non condivido”, ma l’abbia giocoforza detta in modo fin troppo sintetico e nel contesto forse meno utile: “Le leggi della comunicazione sono ferree e ora tutti noi, anziché parlare di cosa sta accadendo alla Mostra del cinema di Venezia, di quale cinema italiano la mostra si faccia promotrice, stiamo parlando di una cosa del tutto soggettiva e persino secondaria, ma che porta con sé il duro segno dei tempi, tempi nei quali ciascuno si fa i ‘ca**i propri a casa sua’ salvo non vedere che anche il nostro cinema (occidentale, bianco e ricco) qualche problemino ce l’ha in relazione a mondi ‘altri’, per esempio l’Africa, ma questo è un altro discorso, direi molto molto serio, che non viene minimamente affrontato”.

Se si ascolta Favino con attenzione, si nota che affronta esattamente il tema di cui parla Vicari: la relazione tra noi e la cinematografia internazionale, dove “americana” sta per “internazionale” perché alla fin fine sono gli americani a dettare le regole del gioco. Favino non dice solo: “Ferrari doveva farlo un italiano” (tra l’altro dice “una volta Ferrari l’avrebbe fatto Gassman e oggi lo fa Adam Driver”, e ci permettiamo di aggiungere, noi, che Adam Driver non è certo un attore della statura di Gassman). Dice anche e soprattutto che gli attori italiani dovrebbero entrare nel “grande gioco” non essendo limitati solo a ruoli di contorno, che la nostra industria dovrebbe sedersi al tavolo delle trattative da posizioni di maggiore forza.

Giustamente Vicari, anziché tirar fuori le solite litanie su Lancaster e Delon, fa l’esempio opposto: Mastroianni nei film di Angelopulos, che non lavorava a Hollywood ma era comunque un cineasta “internazionale”. Infatti, per mettere in discussione le parole di Favino, avremmo dovuto, che so, ricordare Volonté, la Cardinale e Paolo Stoppa nei film di Sergio Leone, o la Loren e la Lollo nei film hollywoodiani veri, o la Magnani che vince l’Oscar diretta da Daniel Mann o anche Roberto Benigni nei film di Jarmusch.

Ma avremmo evocato tempi in cui l’Italia era, per film prodotti e biglietti venduti, una delle prime cinematografie del mondo. Il problema è che solo un’industria forte può creare uno star-system forte da esportare all’estero, esattamente come esportiamo da sempre direttori della fotografia, scenografi, costumisti, montatori – e oggi questa forza non c’è. Favino, che non è fascista né sovranista (lo giuriamo, lo conosciamo bene), sta dicendo al cinema italiano di farsi valere. Se poi vi diverte prenderlo in giro sui social, siete parte del problema.