Gli incubi, l’utopia, un film sperimentale (e il debutto a Venezia): ecco a voi il caso Travis Scott

Poco prima del debutto da attore al Lido con Aggro Dr1ft, il rapper texano ha pubblicato il visual album da lui scritto e diretto insieme ai registi Harmony Korine, Nicolas Winding Refn e Gaspar Noé. Quel che ne esce è un autoritratto musicale, sincero e onirico al tempo stesso

Gli incubi di Travis Scott prendono forma e diventano vivi in Circus Maximus, il visual album che segna il debutto alla regia del rapper a pochi giorni dal suo arrivo al Lido di Venezia per l’anteprima del 2 settembre di Aggro Dr1ft di Harmony Korine, di cui è co-protagonista. Pubblicato il 7 agosto su Apple Music e il 15 agosto, gratis, su YouTube, Circus Maximus è un lungometraggio di 75 minuti che anticipa il nuovo tour nordamericano di Scott, al via dall’11 ottobre con 28 date, e completa il progetto discografico di Utopia, quarto album in studio dell’artista, presentato con un memorabile concerto-evento al Circo Massimo a Roma.

Distopie e utopie di Travis Scott

A due anni di distanza dalla tragedia di Astroworld, festival organizzato dall’artista nella sua Houston, in Texas – dove nella folla fuori controllo morirono soffocate dieci persone – Scott affronta di nuovo il palco e il pubblico, non senza una ben nascosta dose di paura. Alcuni suoi nuovi testi (“The way I make it jump/I make it hard to breathe“), la musica e le visioni di Travis Scott, pseudonimo di Jacques Webster, racchiudono l’oscurità di quel trauma, senza mai andare davvero a fondo. Le tracce di Utopia, in particolare le dodici presenti in Circus Maximus, nascono dal bisogno di comunicare un malessere senza svelare troppo della dimensione privata del rapper, che della sua immagine sfuggente ha fatto un brand. Brani e sequenze restano un enigma, un viaggio nell’inconscio guidato e orientato dalle (pochissime) battute che il rapper recita nel film.

Nel tentativo di mettersi a nudo, anche se mai del tutto, o almeno spogliarsi della sua veste pubblica – rappresentata dal pesante cappotto di pelle che lascia cadere a terra – Travis Scott ricrea un dialogo con Rick Rubin, storico produttore americano, nei panni del suo terapeuta. I loro brevi scambi sono gli unici appigli razionali e verbali in un susseguirsi di luoghi reali e onirici, luci psichedeliche e ombre che nascondono mostri. Eppure tutto torna, in un quadro più coerente di quel che a prima vista potrebbe sembrare. “Ho sentito che è accaduta una tragedia. Stai ancora piangendo?”, chiede Rubin. “La tua utopia è qualcosa di diverso da ciò che intendiamo noi”.

Scott approfitta dello spazio e del tempo dai lui diretti in Circus Maximus proprio per spiegare la sua idea di Utopia: “Qualcosa che non è mai del tutto bello o privo di conflitto, ma che si esprime nel momento in cui si trova l’equilibrio dentro il conflitto stesso. Per raggiungere Utopia devi trovare il modo di trasferire l’energia da un corpo all’altro, senza interruzioni”. Un pensiero, questo, già evidente nel modo viscerale, primitivo, in cui Scott vive il palco e cerca di comunicarlo al pubblico. E mentre lo dice, lo mostra. Le immagini che scorrono sul brano Sirens sono quelle delle torri umane catalane, i castell, in cui contatto e movimento diventano un unico flusso, dalla base fino al vertice.

Visioni e ispirazioni di Circus Maximus

Ogni breve segmento dei primi venti minuti di Circus Maximus è un tentativo di uscire fuori da una metaforica bolla, da qualcosa di ignoto e cupo che tormenta l’artista. Per rappresentarlo al meglio Scott si affida al lavoro di alcuni dei suoi registi cinematografici preferiti, che portano la loro riconoscibilissima estetica all’interno di questo esperimento audiovisivo e co-firmano ognuno una sequenza diversa.

A Valdimar Jóhannsson, autore del perturbante horror Lamb (2021), spetta in apertura il compito più complesso, portare il pubblico dentro l’incubo di Scott, aiutato dalla dolcezza e dall’arrendevolezza del brano Til Further Notice (che al contrario del film, chiude l’album) e dai paesaggi glaciali, incorrotti e quasi inumani dell’Islanda. Jóhannsson è anche l’unico dei registi-ospiti che prova a plasmare l’antagonista invisibile in Circus Maximus come qualcosa di esterno a Scott: una piovra gigante dallo sguardo brutale, un mostro ibrido – come la bambina del suo Lamb – che vive nel buio di una grotta e prova a inghiottire il rapper.

Andrew Dosunmu, fotografo e regista nigeriano, autore di Restless City (2011), elabora invece l’evasione in senso radicale, riportando Scott alla madre terra Africa sulle note di Hyaena. La sequenza, girata in un villaggio dello stato di Kano, in Nigeria, è anche un omaggio alla crescente e sempre più ricca industria cinematografica del paese africano – nota come Nollywood – e all’estetica di alcuni storici titoli del continente. Touki Bouki (Il viaggio della iena) di Djibril Diop Mambéty (1973) è il primo che viene in mente.

Più sottile e concettuale, invece, è il lavoro di Nicolas Winding Refn e Gaspar Noé. Nella loro visione l’escapismo di Scott si trasforma rispettivamente in una stordita corsa in auto sotto le luci al neon – chiaro riferimento a Drive (2011) – e in un allucinogeno dj set anni Ottanta. In entrambi i casi, la musica completa il messaggio. Refn dirige un ipnotico abbandono alla dance guidato dalla voce di Beyoncé – e da qualche nota di Whitney Houston – in Delresto (Echoes), uno dei più prestigiosi featuring in Utopia. Noé con il videoclip di Modern Jam trasforma in immagini l’energia caotica, distruttrice e liberatrice a cui fa riferimento Travis Scott quando parla di raging.

Il raging rap: una valvola di sfogo fra il sé e il mondo

Rabbia, ansia, depressione e solitudine sono di solito i temi emotivi da cui nasce il raging rap, una forma di musica estrema, caotica e rumorosa che attraverso i suoni grezzi e le urla diventa una membrana fra il mondo esterno e le proprie emozioni negative, un modo per scaricarle. Da qui nascono i versi distorti che ormai caratterizzano i brani e i live di Scott, insieme a quella sua smania di arrampicarsi su ogni palco, ballare ininterrottamente e agitare il corpo come a voler scrollare via ogni pensiero, in quel flusso continuo di movimento e contatto che teorizza appunto all’inizio di Circus Maximus insieme a Rick Rubin.

Per questa ragione il vero nucleo del film è il secondo blocco, i cinquanta minuti di live registrati, senza pubblico, nell’anfiteatro di Pompei e co-diretti da Harmony Korine. Le canzoni si ripetono ma questa volta Scott le canta idealmente per qualcuno, dentro uno spettacolo integrale fatto anche di luci, scenografie e coreografie (poi replicate nel successivo concerto-evento al Circo Massimo con 60 mila persone). È pronto, non deve aspettare più nulla, confessa un’ultima volta al Rubin-terapeuta, così esce dalle sue grotte mentali e torna a confrontarsi con l’unico metro di giudizio su cui un performer può contare: lo spettatore e l’adrenalina dell’esibizione.

Circus Maximus si distacca in questo modo da altri celebri visual album a cui sarebbe facile associarlo: dal cortometraggio Runway del suo mentore Kanye West al film musicale Black is King di Beyoncé, o il precedente Lemonade. Si separa anche da esperimenti d’autore come i videoclip dell’album After Hours di The Weeknd, che in successione costituiscono un mediometraggio dei fratelli Safdie. Emerge come un prodotto ibrido e multiforme, difficile da incasellare in un’unica definizione, come il suo autore.