“Se non è una storia che mi tocca da vicino, che sento vicina al cuore, perché dovrei parlarne?”: è una domanda retorica, in realtà, quella con cui Amjad Al Rasheed descrive il percorso che l’ha portato a realizzare Inshallah A Boy.
È la storia di Nawal (Mouna Hawa), una donna trentenne che resta improvvisamente vedova con una figlia soltanto, Nora. Secondo la legge, anzi la Sharia applicata in Giordania, senza un erede maschio è costretta a dividere l’eredità del marito con la famiglia di lui, rischiando così di perdere tutto, la casa e la custodia della piccola Nora. La lotta di Nawal, tuttavia, non conosce resa, mettendo alla prova le sue stesse convinzioni e la sua moralità. In un crescendo emotivo che dal dramma arriva a sfiorare il thriller, a salvarla (purtroppo e per fortuna) sarà solo la speranza di una nuova vita in grembo. Inshallah, se Allah vuole, sarà un maschio.
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Una scelta personale
“Sono due film totalmente diversi, ma credo mi abbia inconsciamente ispirato Rosemary’s Baby nella realizzazione, per quel senso di horror realistico, di angoscia che volevo creare”, afferma il regista a THR Roma.
Sul perché il tema lo tocchi da vicino, Al Rasheed risponde semplicemente: “È qualcosa che è successo intorno a me, a una persona a me cara. Questo mi ha portato a riflettere, a chiedermi come sia possibile che molte persone al mondo vivano ancora secondo leggi che non garantiscono diritti fondamentali, soprattutto alle donne. E dalle mie ricerche ho scoperto che non accade soltanto nel mondo arabo”.
Il percorso del film
Inshallah A Boy è l’esordio dietro la macchina da presa per il regista giordano vincitore del premio Premio Rail d’Or e del premio Gan per la distribuzione alla Semaine de la Critique di Cannes 2023 e primo film in assoluto della Giordania al festival francese. Arriva in Italia il 14 marzo, con alcune anteprime speciali in occasione della Giornata internazionale della donna e in collaborazione con il Festival del cinema Festival del cinema africano, d’Asia e America Latina (Fescaaal) di Milano.
Il suo viaggio tuttavia inizia molto prima: “Sono trascorsi sei anni circa, tra la ricerca dei finanziamenti, la produzione e la realizzazione. In mezzo c’è stata anche l’interruzione causata dal Covid”, ricorda Al Rasheed. “Credo tuttavia che sia stato soltanto il tempo necessario per un film del genere, indipendente e d’essai”.
Inshallah A Boy, alla ricerca dell’autenticità
Ambientato quindi nella Giordania contemporanea, Inshallah a Boy è un microcosmo femminile, popolato da diverse figure di donne, di ceto, età e religione diversa ma ognuna con una sua lotta intima e personale da affrontare. Gli uomini – che siano fratelli, cognati, mariti o spasimanti – restano fisicamente in disparte, ma il loro peso è costante. Come costanti sono i tentativi di Nawal di liberarsene e guidare da sola la sua vita, diventando un modello di indipendenza per la figlia.
“Ho cercato di essere più autentico e realistico possibile”, prosegue il regista. “Tutto quello che è venuto fuori è frutto della mia osservazione. Non ci sono personaggi negativi, nemmeno gli uomini lo sono. Sono piuttosto tutti vittime della società e di ciò che la società si aspetta da loro. Ognuno abita – ed è – una zona grigia, la zona in cui nascono le domande morali. Che poi sono quelle che mi interessano. Domande antiche, come: è giusto o no obbedire a leggi ingiuste?”.
Domande che, nella cultura occidentale, fanno subito affiorare un solo nome: Antigone, anche se Amjad al Rasheed appunto non lo pronuncia. La forza della tragedia classica scorre comunque nell’interpretazione esemplare di Mouna Hawa.
“Mouna è arrivata dopo un casting molto accurato, da cui è dipesa la riuscita del film stesso. Ci serviva trovare persone che, in generale, sentissero e sapessero restituire la responsabilità del ruolo. E lei è così, una donna forte e brillante”. Al Rasheed prosegue: “Volevo un film semplice, ma più semplice è e più complesso diventa il lavoro per raggiungere quella semplicità. Abbiamo lavorato tanto per esempio per trovare il giusto tono dei dialoghi, perché sembrassero familiari, quotidiani, come una normale chiacchierata. O sul linguaggio del corpo, nei piccoli gesti”.
Donna, politica e società
In quella stessa quotidianità, nella lotta che Nawal affronta giorno dopo giorno per affermarsi come donna e come persona nella società, c’è il senso stesso del cinema, così come lo percepisce il giovane regista. “Alla fine dei conti ogni storia è umana e ogni storia è politica, perché la politica non si può scindere dall’umanità. E il cinema da questo punto di vista aiuta a chiedersi come riusciamo a evolverci in quanto società, perché richiede un confronto con l’altro, già nella sala appena si riaccendono le luci”.
Un discorso, questo, che secondo Al Rasheed vale anche e soprattutto per l’attualità in Medio Oriente: “Se penso al mondo arabo, il cinema è la voce che porta altrove storie diverse e al tempo stesso ci aiuta a porci alcune domande: quello che facciamo funziona ancora? È ancora rilevante? Perché è normalizzato?”
Di fronte all’indifferenza con cui sono state consumate migliaia di immagini sempre più violente, soprattutto dal 7 ottobre in poi, il suo ruolo come regista di questo film nello specifico e come artista proveniente dal mondo arabo è anche quello di riportare l’attenzione sui diritti umani. Ed è ciò che intende fare, come confermato a THR Roma, anche durante il suo tour di presentazione di Inshallah A Boy accanto a Mouna Hawa, la sua protagonista che è un’attrice palestinese.
“Quello che sta accadendo è follia. Follia. Una situazione orribile, un genocidio che nessuno sembra in grado di fermare. Bisogna fermarlo, però, e non ripetere più gli stessi errori. È necessario riconoscere al popolo palestinese la libertà non solo di esistere ma di vivere alle sue condizioni. E lo stesso vale per tanti altri paesi, come il Sudan, lo Yemen e l’Ucraina”.
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