Viaggio nel mondo di Tom Wolfe: sfida permanente di un provocatore alla dittatura dell’ovvio

Abbiamo visto il documentario che ripercorre la vita e la carriera di un personaggio assolutamente anomalo nel mondo della narrativa americana: padre, insieme a Talese, Didion, Mailer e Capote, del new journalism, inventore del termine "radical chic", penna tra le più feroci e fustigatore dell'establishment intellettuale americano. Tutto questo (e anche di più) in Radical Wolfe, appena uscito negli Usa

In Radical Wolfe, appena uscito negli Stati Uniti, la migliore definizione dello scrittore americano la dà Gay Talese, che ne è stato fraterno amico: “Tom Wolfe era un gentleman del sud sempre impeccabile nella forma e sinceramente affettuoso nella sostanza, che tuttavia con la penna in mano diventava un terrorista”. Basato su un celebre articolo di Vanity Fair a firma di Michael Lewis, e diretto con competenza da Richard Dewey, il documentario ripercorre la vita e la carriera di un personaggio assolutamente anomalo nel mondo della narrativa americana: insieme a Talese, Joan Didion, Norman Mailer, George Plimpton e Truman Capote è stato il fondatore del New Journalism, con saggi al vetriolo passati alla storia quali Maledetti Architetti e Come ottenere il successo in arte, e si è cimentato quindi nella narrativa con un’incredibile serie di best-seller, tra i quali almeno due libri di assoluta qualità come Il falò delle vanità e Un uomo vero. La sua arma vincente è stata la provocazione e ha avuto il coraggio di sfidare apertamente l’establishment intellettuale che detestava, ampiamente ricambiato.

Parliamo di una persona la cui tesi di laurea, magna cum laude a Yale, si intitolava “A zoo full of zebras: anti-intellectualism in America”, che affrontò da perfetto sconosciuto il giovane John Fitzgerald Kennedy, e che ogni anno scriveva gli auguri di Natale sottolineando Merry Christmas, poiché trovava una forma di ipocrisia l’espressione neutra Happy Holidays. Ne sono testimone personale e conservo come un cimelio uno di questi auguri arricchiti da un disegno a mano. Conservatore in politica, ma tutt’altro che reazionario o bigotto, era dotato di una straordinaria libertà intellettuale e un profondo senso dell’umorismo, grazie al quale evitava il rischio del moralismo.

Invenzioni “lost in translation”

In apparenza le sue provocazioni erano innanzitutto stilistiche: uno degli articoli più divertenti che abbia mai scritto inizia con la parola ernia ripetuta 57 volte, e sono diventati un segno distintivo la riproduzione dei rumori e l’uso creativo e a volte anche un po’ incomprensibile dei segni di interpunzione. I traduttori italiani hanno fatto il possibile, come nei casi di La baby aerodinamica kolor karamella; L’Acid Test al Rinfresko Elettriko; Mau-Mauizzando i parapalle, ma è evidente che quelle invenzioni rimangono perse nella traduzione. Com’è ancora più evidente che che la rivoluzione del linguaggio andava di pari passo con quella relativa alla sostanza e i contenuti: i suoi scritti erano vere e proprie bombe, che esplodevano lasciando soltanto macerie nei luoghi dove erano collocate.

Tom Wolfe in un ritratto realizzato a New York nel 1965

Tom Wolfe in un ritratto realizzato a New York nel 1965 – Photo by Jack Robinson/Hulton Archive/Getty Images

Ne sa qualcosa il pur grandissimo Leonard Bernstein, la cui reputazione sociale venne incrinata per sempre dopo aver organizzato nel proprio appartamento su due piani di Park Avenue una festa per finanziare le Black Panther con maggiordomi rigorosamente bianchi. Wolfe non era invitato, ma utilizzò l’invito destinato a David Halberstam e scrisse un articolo indimenticabile nel quale mise alla berlina tutta l’operazione immortalando l’espressione Radical Chic. Aveva il talento folgorante di sintetizzare in una battuta un intero mondo o una condizione esistenziale: si deve a lui anche me decade / il decennio dell’io, con il quale sigillò il narcisismo della fine dello scorso millennio.

Il documentario racconta bene come il Balzac di Park Avenue, così venne soprannominato, si trovò intrappolato nel suo stesso personaggio di dandy, a cominciare dal vezzo di vestire sempre di bianco con splendidi cappelli del secolo precedente.

Tom Wolfe contro l’ipocrisia

Combatteva con ogni forza l’ipocrisia, e teorizzava che non esiste un giornalismo realmente obiettivo: tra i bersagli preferiti ci fu il New Yorker, che definì un “luogo di mummie” anche quando scrivevano per la testata giganti quali JD Salinger. La rivista non ha mai perdonato l’affronto e in ogni occasione ha attaccato lo scrittore, ben felice di rincarare la dose. Per non parlare dell’attacco al trio composto da John Updike, John Irving e Norman Mailer, che definì i Three Stooges, nome di un gruppo di comici di serie B. I tre scrittori reagirono con analoga violenza, definendo illeggibili i suoi libri e nel migliore dei casi dei divertissement. Wolfe replicò che si trattava soltanto di invidia, perché in tre non raggiungevano neanche lontanamente le sue vendite.

Si divertiva follemente nella lotta e spesso la cercava, sapendo di essere imbattibile nel confronto dialettico: pur non essendo un autentico fan di Bush figlio, giudicò insopportabili gli articoli di intellettuali che annunciavano che avrebbero lasciato il paese nell’eventualità di una sua vittoria. Quando Bush venne eletto presidente dichiarò che non vedeva l’ora di andare all’aeroporto e fare ciao con la mano agli intellettuali in partenza.

Ammirato da Harold Bloom, principe della critica americana, che lo definì “un feroce narratore e un notevole scrittore di satira sociale” era sinceramente amico di personaggi lontani quali Hunter Thompson è Ken Kesey: è uno degli elementi più interessanti del documentario, e ancora una volta si doveva alla libertà intellettuale la capacità di vedere la qualità dei rispettivi autori aldilà dei loro aspetti provocatori e addirittura folli.

Non è stato fortunato con gli adattamenti cinematografici: se Uomini Veri, brutto titolo italiano di The Right Stuff, è stato poco più che un adattamento professionale a firma di Philip Kauffman, la versione cinematografica del Falò delle Vanità è una delle prove registiche meno felici di Brian De Palma per il modo in cui ha esasperato i toni già estremamente potenti del libro. Quel magnifico romanzo oggi troverebbe molte difficoltà a essere pubblicato per il modo in cui è descritta la gente di colore attraverso gli occhi di un finanziere bianco dell’Upper East Side: Wolfe era l’antitesi del politicamente corretto.

Il prezzo di tutto, il valore di niente

Il documentario sottolinea giustamente come gli ultimi due romanzi, Io sono Charlotte Simmons e Le Ragioni del sangue non possano essere considerati al livello delle sue opere migliori: ormai anziano, Wolfe li ha scritti illudendosi di identificarsi in personaggi troppo più giovani di lui attraverso meticolose ricerche, come faceva all’epoca del New Journalism. Eppure, nonostante il risultato finale deludente, il Balzac di Park Avenue ha anticipato temi di assoluta attualità anche in quei libri temi: il conflitto tra i sessi e l’abuso sessuale, i cambiamenti antropologici dovuti all’immigrazione e il vuoto che circonda il mondo dell’arte contemporanea, dove risulta perfetta la definizione del cinico data da un autore a lui caro, Oscar Wilde: “Colui che conosce il prezzo di tutto e il valore di niente”.