Un’Arancia meccanica è un “giocattolo a molla pronto a essere caricato da Dio, dal Diavolo o dallo Stato onnipotente, e a far scattare la propria violenza”, così lo descriveva Anthony Burgess, autore del romanzo distopico omonimo da cui Stanley Kubrick trae il film del 1971.
È la storia di un ragazzo rivoltante, violento, aggressivo, stupratore e assassino che diventa il centro di uno dei capolavori della storia del cinema. Come e perché riesce a spiegarlo solo la fascinazione per Kubrick, per il suo talento indiscusso nel mettere in scena l’umanità, anche quella più repellente.
Agghiacciante la scena sulle note di Singin’ in the Rain così come qualsiasi primo piano dell’Alex DeLarge di Malcolm McDowell. Una maschera di puro male, capace di tutto. Da regista, tuttavia, Kubrick riesce persino a creare empatia per lui, far provare pietà per questo essere così estremo da non sembrare umano.
C’è un momento in Arancia meccanica in cui Alex torna in casa dei genitori solo per scoprire che il suo posto appartiene a qualcun altro. Proprio lì Kubrick è capace colpire la sensibilità dello spettatore, portarlo dalla sua parte e fino a provare pena.
Cosa di cui forse solo il cinema, con la sua vicinanza agli sguardi e ai pensieri, è capace.
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