La classe operaia va ancora in paradiso? Dalle fabbriche agli youtubers, storie di lavoratori

Dalla rue Saint Victor dei fratelli Lumière ai tempi moderni di Charlie Chaplin, che insieme al Mahatma Gandhi ragionò sull”industrializzazione sconsiderata con in mente solo il profitto”. E poi Ken Loach, Stéphane Brizé, i The Jackal. Fino alla precarietà dei giovani d'oggi (e, in parte, di ieri)

Sebbene si pensi che il primo film della storia del cinema sia L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat, a venir proiettato come esperimento iniziale della appena neonata settima arte fu in verità L’uscita dalle officine Lumière, datato 1895. I fratelli omonimi, Auguste e Louis, avevano bisogno di dimostrare come la loro “macchina fotografica” in grado di riprodurre fluidamente il movimento fosse in grado di riprendere la realtà circostante, puntando l’occhio sugli elementi a loro quotidiani.

È perciò inevitabile per gli inventori, da sempre e per sempre lavoratori instancabili dell’immagine (anche quando lasciarono la loro creazione “senza futuro”) soffermarsi su ciò che per loro era più familiare.

La fabbrica, per molti, è stata nel corso dei decenni la seconda casa, la destinazione indiscutibile verso cui indirizzare le proprie giornate. Un luogo che alcune aziende avrebbero poi voluto far sentire più come un nido famigliare che come una fatica, ma che è bene sia rimasto per lo più rilegato e circoscritto all’ambito del “mestiere”.

Fabbrica è ciò che salta in mente quando si tira fuori la sua parola-compagna, “lavoratori”, e il fatto che il primo film mai realizzato mostri gli operai che staccano ed escono dal portone principale della struttura di Monplaisir, alla periferia di Lione, fa capire che non poteva che essere il lavoro stesso il primo argomento ripreso e proiettato dai fratelli del nascente cinema.

Il numero 25 di rue Saint Victor, successivamente ribattezzata rue du Premier Film, rimane così testimonianza di un inizio e passaggio che il cinema avrebbe fatto, che dall’esterno dei battenti dell’edificio avrebbe poi accompagnato il pubblico, nelle opere successive, fin dentro i meccanismi della produzione in serie, nel mestiere automatico e ripetitivo che trasforma in automa – al contrario dell’automa che si trasforma in umano, come in Metropolis di Fritz Lang del 1927, dove il lavoro passava da subito per un altro grande tema delle narrazioni cinematografiche, la lotta di classe.

Charlot e i suoi tempi moderni

Sulla scia della Grande Depressione, che la pagnotta l’aveva sottratta a molti, e dopo una conversazione sull’”industrializzazione sconsiderata con in mente solo il profitto” avuta col Mahatma Gandhi, Charlie Chaplin realizzò il primo manifesto sistematico della sistematicità del lavoro.

Ridendone, come solo Charlot sapeva far fare. Ma incentrando l’opera sulla meccanicità di gesti e movimenti che, se ironici sullo schermo, si portavano dietro i tic delle fabbriche che non si arrestavano mai, degli operai che non si fermavano mai, di un cinema che era e stava diventando un’industria e che non sarebbe rallentato di fronte a niente. Mai.

Tempi moderni di Charlie Chaplin (1936)

Tempi moderni di Charlie Chaplin (1936)

Tempi moderni è il più moderno film che quasi cent’anni dopo continua a sorprendere per il suo essere intrattenimento e denuncia, divertimento e malcontento. È la fabbrica verso cui si erano spostati i contadini prima che il boom economico – molto prima – li volesse dirigenti o impresari, che nel Bel paese ha significato un viaggio dal Sud verso il settentrione, con conseguente filone di storie e tradizioni. Su cui, tra tutti, divenne Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, datato 1960, il paradigma da raggiungere e cercare di eguagliare.

Eppure Milano non è mai stata più viva di quando la riprendeva Ermanno Olmi, che il nord lo ha inquadrato dall’esordio Il tempo si è fermato (1959) all’inaspettato viaggio all’inverso de I fidanzati (1963), dove un operaio milanese viene trasferito in Sicilia. E in cui, in mezzo, troviamo l’illuminante Il posto (1961), in cui Milano “significa soprattutto il posto di lavoro”. Ritornello che riecheggia tutt’oggi quando il cinema vuole tornare indietro nel tempo, come ci spiega in Zamora Neri Marcoré, suo esordio alla regia, con il passaggio del protagonista dalla provincia sicura alla metropoli selvaggia e industriale.

I cineasti dalla parte dei lavoratori, da Ken Loach a Michele Riondino

Esaltati e martoriati, privilegiati da un certo sguardo che di certo li rendeva protagonisti, ma non sempre di storie a lieto fine, i lavoratori sono stati i personaggi di tanto cinema impegnato, di filmografie clamorose, di opere di denuncia che dovevano oltrepassare lo schermo per schiaffeggiare gli spettatori.

Prendere le stesse mazzate, le lavate di capo, richiedere i diritti e avere in cambio solo la loro privazione sono diventati leitmotiv di eventi che accadevano anche ai veri operai (o stagisti, o precari, o qualsiasi altro “schiavo” legalizzato) e risuonavano poi nel cinema.

Tanto da far passare solo quattro anni dall’alienazione della vita dell’operaio Lulù Massa di Gian Maria Volonté ne La classe operaia va in paradiso alla parodia del lavoro d’ufficio del Fantozzi di Luciano Salce – con Elio Petri scomodato nel 2023 da Palazzina Laf, debutto registico di Michele Riondino. Se gli anni sessanta erano stati ruggenti, i settanta diventano furiosi. Cambiamenti, rivolte, sommovimenti, all’urlo di Crepa padrone, tutto va bene di Jean-Luc Godard e Jean-Pierre Gorin (o del ben più contenuto Tout va bien del titolo originale).

Io, Daniel Blake di Ken Loach (2016)

Io, Daniel Blake di Ken Loach (2016)

Non sarà certo un caso che la carriera del cantastorie dei lavoratori, Ken Loach, sia cominciata proprio sul finire dei 60s. Figlio di operai, dedito per tutto il suo percorso artistico a restituire dignità ai ceti economicamente e socialmente instabili, basterebbero anche solo gli ultimi tre racconti della sua filmografia per restituire il senso di un’intera carriera: Io, Daniel Blake (2016), Sorry We Missed You (2019) e The Old Oak (2013).

Non trilogia dichiarata sui lavoratori – come invece quella altrettanto impressionante di Stéphane Brizé con La legge del mercato (2015), In guerra (2018) e Un altro mondo (2021), protagonista sempre Vincent Lindon – ma tre opere che racchiudono l’intero senso di una poetica. Sono però anche i gesti ciò che contano, come il rifiuto nel 2012 di accettare il Gran Premio Torino alla kermesse piemontese – in cui venne proiettato il suo La parte degli angeli – a sostegno dei lavoratori della Cooperativa Rear, addetta ai servizi di pulizia e sicurezza del Museo Nazionale del Cinema, che avevano subito licenziamenti e tagli di stipendio.

I volti del precariato

È poi dal 2000, anche e soprattutto in Italia, che il lavoro ha cambiato faccia, col cinema che ha deciso di concentrarsi sulle difficoltà delle generazioni più bistrattate, quasi impossibilitate nel potersi costruire un futuro.

Antonio Albanese saltava di lavoro in lavoro ne L’intrepido di Gianni Amelio, e non è un caso che in uno dei suoi ultimi film da regista, Cento domeniche, metta in scena un ex tornitore che si ritrova incapace di mantenersi con i risparmi di una vita. E se guardiamo ai volti, agli interpreti che hanno incorporato il disagio delle incertezze salariali (e i loro pericoli), Isabella Ragonese è stata prima centralinista nella setta-società di Tutta la vita davanti di Paolo Virzì e poi pendolare per arrivare ogni giorno al suo posto da barista in Sole cuore amore di Daniele Vicari.

E dove non ci sono più occhi per piangere, sono i comici ad essere arrivati per cercare di tramutare l’angoscia in risate. Anzi, i nuovi-comici. Spesso youtubers. Divertente pensare che a raccontare il precariato della Generazione 1000 – che non arrivava nemmeno a mille euro al mese, come raccontava Massimo Venier nella pellicola omonima del 2009 – siano stati coloro il cui lavoro, fino all’avvento di internet, nemmeno esisteva.

Addio futtuti musi verdi di Francesco Capaldo (2017)

Addio futtuti musi verdi di Francesco Capaldo (2017)

Frank Matano, pur di svoltare come videomaker, segue la (ri)ascesa di Benito Mussolini in Sono tornato, assecondandola e sfruttandone il successo. I The Pills si dilettano nel 2016 con la regia, visto che è Sempre meglio che lavorare – titolo, appunto, del loro (unico) film di gruppo.

Fabio Rovazzi interpreta Fabio Rovazzi ne Il vegetale, dove da neolaureato passa ad essere raccoglitore di pomodori. E i The Jackal portano addirittura lo spettatore fin nello spazio, unico posto in Addio Fottuti Musi Verdi, anche all’estero, dove hanno finalmente trovato un posto in cui lavorare. Un cinema incerto fatto di personaggi e domani traballanti. Di sicuro tutti dotati di partita iva.