Lumbrensueño, un mash-up messicano di poesia, rabbia giovane e Gilgamesh (in versione musicale)

Il film del regista José Pablo Escamilla e della produttrice Diandra Arriaga è uno dei tre progetti selezionati della Biennale College Cinema, un lungometraggio a micro-budget ambientato nella città di Toluca. "I grandi budget? Non ci interessano. Vogliamo rimanere piccoli"

Ogni sera, a San Servolo, José Pablo Escamilla faceva una preghiera prima di andare a dormire affinché gli spiriti dell’isola non gli facessero compiere nessuna sciocchezza. Che lo mantenessero concentrato, impegnato nei workshop della Biennale College Cinema, da cui il suo progetto Lumbrensueño è stato selezionato, diventando un lungometraggio a micro-budget da 200 mila euro. Un lavoro, portato dignitosamente a termine anche grazie al sostegno della sua produttrice Diandra Arriaga, accanto a lui da quasi dodici anni.

Sono amici da una vita Escamilla e Arriaga – parte del collettivo Colectivo Colmena – che portano in anteprima all’80esima Mostra del Cinema di Venezia un’ibrida storia adolescenziale tra luoghi dell’anima e poesia. Ambigua la pellicola, misteriosi e affascinati i suoi creatori, che per Venezia80 dicono di avere una missione: riportare a San Servolo un fantasma che José Pablo Escamilla ha accidentalmente portato con sé in Messico. Ma questa è un’altra storia.

Com’è stata la vostra esperienza con Biennale College?

José Pablo Escamilla: Molto intensa. Innanzitutto perché sei su un’isola minuscola, San Servolo, che un tempo era un manicomio. E si percepisce, perché lì sono tutti un po’ matti. C’è una sorta di pressione, perché hai a che fare con tutor di altissimo livello e capisci che tutto ciò che vogliono è aiutarti a dare vita alla tua visione. Si lavora sul trattamento della sceneggiatura, poi si passa alla produzione. In due settimane lo script deve essere pronto.

Diandra Arriaga: Sono tutti tutor professionisti. Persone del mestiere che scrivono, girano, producono. Questo fa la differenza. Sono abituate a budget ridotti, un tipo di impostazione molto punk, molto fai da te. Ed è proprio questo l’obiettivo della Biennale College: dare la consapevolezza a chi frequenta i workshop della possibilità di produrre in maniera differente.

Ai corsi partecipano un regista insieme al produttore. Voi collaborate da tanto?

D.A.: Più o meno da dodici anni. Oddio, è davvero tanto. Abbiamo anche un collettivo (Colectivo Colmena, ndr.).

J.P.E.: Quella di Biennale College è un’esperienza incredibile da fare insieme a un amico. Non ce l’avrei mai fatta su quell’isola senza Diandra.

Cosa significa realizzare un film a micro-budget?

D.A.: Duecentomila euro non sono tanti per un film, ma per una produzione messicana non sono affatto male. L’obiettivo era riuscire a pagare tutta la troupe. Non volevamo che nessuno di loro lavorasse gratis. Allo stesso tempo è stata la parte più difficile. Desideravamo dare una paga dignitosa ai nostri collaboratori, senza dimenticare che servivano soldi anche per le location, le scenografie e il resto. Ed è proprio in questo che il workshop ci ha aiutato: ci ha insegnato come lavorare.

J.P.E.: Il micro-budget è organico alla nostra filmografia. Siamo abituati a lavorare in piccole squadre e con piccole camere, il che contribuisce a rendere tutto più maneggiabile. Non ci piace sottostare alle regole di un mercato che vuole tutto più grande, più grande, più grande. E se noi volessimo restare piccoli?

In Lumbrensueño c’è un senso di confusione, di rabbia, e un grande vuoto causato dalla perdita. Il vostro è un film sul tormento di quando si è giovani?

J.P.E.: Sì. E, nello specifico, in questo particolare angolo di mondo. Sono cresciuto a Toluca, comune industriale in cui è ambientato il film. Trascorrendo lì la mia giovinezza mi sono sempre sentito non completamente felice, con la costante voglia di andare via. Non mi sentivo a mio agio nel luogo, geografico e dell’anima, in cui mi trovavo. A Toluca esiste solo l’industria automobilistica, o comunque sola la vita della fabbrica. Non ti è concesso fare quello che ti piace e non puoi essere un artista. L’immagine che volevo dare con Lumbrensueño è quella di un fiore che cresce tra le crepe di un marciapiede.

D.A.: Non vivo nella stessa città di Pablo, ho avuto un’infanzia più rurale. Ma a Toluca abbiamo girato sia questo che il film precedente, perciò a suo modo è un posto speciale. La sua valle è unica ed è un luogo stranissimo, con una laguna al fianco di una fabbrica. È un paesaggio molto interessante e penso che, nel suo piccolo, restituisca la visione complessiva dell’intero Messico, tra natura, spazzatura, gente, rumore e animali.

Il film inizia con una lunga sequenza di immagini sfocate, frammenti, musica e suoni. Poi comincia una narrazione più canonica. Perché questa ibridazione?

J.P.E.: Trovare l’equilibrio è stata la cosa più difficile. Volevo ci fosse della poesia in Lumbrensueño. Solo dopo ho pensato alla storia. Quando è arrivata ho capito quanto fosse difficile mettere insieme una solida narrazione e la libertà creativa. Volevo che la pellicola fosse libera, ambigua e dissimile da qualsiasi altra cosa. Doveva essere come quando si legge una poesia. Oggi nessuno legge più poesie. È una cosa che mi ossessiona. Gli spettatori sono disabituati a visioni eteree, astratte.

D.A.: Abbiamo iniziato a mostrare la pellicola ai nostri amici. Poi abbiamo a registi, artisti, ma anche avvocati. Volevamo quante più prospettive possibili. E speravamo che tutti riuscissero a coglierne la poesia. Ci piace il cinema sperimentale, ma abbiamo inseguito quell’equilibrio che avrebbe reso Lumbrensueño facilmente leggibile da un pubblico più largo.

È come se volesse che gli spettatori si riconoscessero in un aspetto di Lumbrensueño.

J.P.E.: È esattamente quello che inseguivamo. Ho messo nel frullatore tutti i miei poeti preferiti, frasi che ho sentito per strada, pezzi dei miei diari. È un mash-up poetico. Avete presente la musica? La colonna sonora del film, ciò che sentono i ragazzi nella pellicola, è una sorta di adattamento dell’epopea di Gilgamesh in versione musicale messicana.

Nella pellicola il protagonista scopre la fotografia. Si può dire che sia ciò che lo salva?

J.P.E.: Più che la fotografia è la camera oscura. È qualcosa che ha a che fare con me e Diandra, da sempre. Ai tempi era considerata un elemento magico. Una scatola nera in cui chiudere i fantasmi del mondo, catturare la realtà. Per me è potente. Può catturare la luce, capisci? È stato l’aspetto illuminante di Lumbrensueño. Al principio il personaggio ha dentro di sé un’oscurità che lo divora.

D.A.: Ho sempre trovato conforto in attività che potessi realizzare con le mie mani. Questa per me è l’arte. Per salvarsi, però, ciò che serve davvero è rallentare, prendersi il proprio tempo.

J.P.E.: Ma poi, il cinema, chi lo salva? Possiamo dire che sia morto? La mia risposta è no. Sono le industrie che lo stanno distruggendo. Sono le piattaforme. Chi protesta a Hollywood punta il dito contro i ricavi di imperi come la Disney. Anche se forse il punto è che si dovrebbero aprire di più i propri confini. Smettere di guardare solo all’America, ma rivolgersi a un intero mondo di filmografie.