Pacifiction, la recensione: viaggio nell’oltrecinema, tra cieli rossi apocalittici e fantasmi del tempo

Sorprendente e surreale, promette di essere un caso il film di Albert Serra, il catalano più aristocratico ed eccentrico dalla morte di Salvador Dalí, in sala dal 18. Il regista incontrerà il pubblico la sera di sabato 13 a Roma, al cinema Quattro Fontane

L’indizio è nel titolo. Pacifiction è uno di quei film, rari, che non fissano mai nulla, che accolgono e catturano come un gesto miracoloso tutte le possibili micro-finzioni che promette il reale, a condizione di saperlo guardare. E su un’isola di Tahiti un uomo osserva il mondo cambiare. Ma qualcosa della sua realtà gli sfugge, si perde, svanisce in volute di fumo.

Haut-Commissaire de la République e rappresentante dello Stato nella Polinesia francese, De Roller ha caldo nel suo vestito bianco, l’uniforme dandy di un distacco d’oltremare. In quello spazio coloniale e in quel torpore tropicale, incarna gli ologrammi di alti funzionari, emessi da una lontanissima metropoli. Ma il film svelerà presto che De Roller non rappresenta che se stesso, il suo dubbio, il suo dramma, il suo problema. Come gli altri, più degli altri è preso tra sé e lo Stato. Tra il suo corpo e la sua funzione.

In quello scarto non può far altro che pensare, oziare, spostarsi da un gruppo all’altro, da una corporazione all’altra, traspirando neo-umidità coloniale e verificando la possibile presenza al largo della costa di un sottomarino destinato a riprendere test nucleari. Teleguidato da una potenza esteriore, vorrebbe esistere fuori da quella relazione, smarcarsi, distinguere il vero dal falso, smascherare i rapporti di potere che passano per i corpi, per i piani, per la precisione matematica di un cinema barocco e radicale.

Una fluidità che sembra incontrollata

Principe del tempo in divenire, Albert Serra filma una successione di piccoli eventi accidentali con una fluidità che sembra incontrollata, quasi documentaria, come obbedisse al caso e all’improvvisazione. Il controllo è invisibile e conferisce al film la sua sfocatura, la sua immaterialità, il suo peso, la persistenza sulla retina delle sue immagini di folle bellezza. Indifferente alla maggioranza, il catalano più aristocratico ed eccentrico dopo la morte di Salvador Dalí, suo modello dichiarato, coltiva un cinema esigente e sensoriale, impenetrabile ai più ma formidabilmente audace. Un cinema che si sogna, dopo l’agonia (La mort de Louis XIV) e l’orgia (Liberté).

Pacifiction, attendendo l’apocalisse

Attendendo l’apocalisse, l’alto commissario si trascina in un paradise night gestito da un Sergi López in gold lamé. Come La Mort de Louis XIV, che assediava il capezzale di Jean-Pierre Léaud, Pacifiction è innanzitutto un film sul suo attore, se non addirittura sulla nozione di attore, sempre diviso tra persona e ruolo, proprio come il personaggio che Serra vuole incarnare: un “animale politico” al servizio di rapporti di forza taciti ma perennemente in gioco.

Un film su Benoît Magimel è qualcosa di indescrivibile, l’ipnosi che produce si può solo guardare. A immagine del film è un corpo opaco che si infittisce più di quanto si dissipi. Avanza contro l’ineffabilità del mondo e l’ostilità immemore della natura, si declina ai quattro angoli dell’isola e scivola sull’acqua, sul fianco di un’onda gigantesca o di Shannah (Pahoa Mahagafanau), presenza queer, che ha radici nella tradizione Māhū e resiste a tutte le forme di dominazione.

La chiavi della prigione mentale

‘Doppio agente’ in un mondo sospeso, sembra custodire la chiave della prigione mentale in cui De Roller si è rinchiuso. Volubile e tattile dietro le lenti blu, che stabiliscono una distanza coi nativi a cui pretende di interessarsi, Magimel è il fantasma di un impero smantellato da tempo. È tutti i politici del mondo e l’esemplare unico al centro di un conflitto nucleare, che rimane un MacGuffin, una minaccia, fantasma, notturna, sommersa. La storia si snoda attorno a lui, depositario di tutte le autorità, coloniale, statale, economica, maschile e persino divistica, governatore di un’isola addormentata e di un thriller post-esotico, dove non accade niente ma tutto sembra sul punto di precipitare.

Pacifiction, con le sue notti stupefacenti e i suoi cieli rossi, non assomiglia a niente di conosciuto, è un’esperienza d’ ‘oltrecinema’, una ricerca incompiuta, un incontro impossibile, e in questo senso conradiano. Se siete disposti a perdervi nella giungla, accomodatevi pure. In sala, rigorosamente.