Rispetto e tutele del lavoro culturale

Nel settore dello spettacolo e delle arti, più che altrove, si riproducono oggi quelle che nel Novecento furono le dinamiche padronali del lavoro industriale: l’atteggiamento proprietario di chi paga verso chi è pagato, l’arroganza e il ricatto

“Era come giocare al poker”, scrive Luciano Bianciardi. È un passaggio del libro Il lavoro culturale in cui parla dell’assegnazione delle cattedre agli aspiranti professori. La roulette delle graduatorie, la scelta fra la materia per cui si è studiato (poniamo: filosofia) e la disponibilità di un posto vicino a casa (poniamo: Gavorrano, ma per insegnare inglese). Se accetti Gavorrano rinunci alla filosofia. Se aspetti la filosofia resti senza lavoro, ma conservi la speranza di poter fare un giorno quel che desideri. Rischia, gioca la tua mano. Il lavoro culturale è sempre come giocare a poker, ma specialmente lo è nel settore dello spettacolo e delle arti.

Più che nell’editoria, dove alla fin fine persiste una specie di pudore etico, un residuo di senso del rispetto dell’opera dell’ingegno di chi vi partecipa: intellettuali, nel senso proprio del termine. Gente che mette a profitto (poco, è un settore povero) la propria intelligenza. Più che nella politica, dove il continuo turn-over, l’instabilità dei governi e dunque degli incarichi rende tutti solidali in una sorta di patto tacito: oggi a me domani a te. Più che nel pubblico impiego, per quei pochi fortunati che ancora riescono ad accedere al “posto fisso” – sono soprattutto quelli che il posto ce l’avevano da prima, gli addetti del pubblico impiego: lì la certezza della inamovibilità genera sovente una tranquillità priva di competizione, quando non un lassismo fatalista con le conseguenze che tutti conosciamo.

Ma è nel settore dello spettacolo e delle arti, più che altrove, che si riproducono oggi quelle che nel Novecento furono le dinamiche padronali del lavoro industriale: l’atteggiamento proprietario di chi paga verso chi è pagato, l’arroganza e il ricatto. Il ricatto fondato sulla minaccia di togliere il pane (la parte, la notizia in anteprima, l’appalto in esterna). Probabilmente perché è la più ricca delle industrie, quella dell’audiovisivo: è lì, nel cinema e più ancora nella tv – le piattaforme in streaming gli accordi le coproduzioni le compravendite internazionali – è lì che girano i soldi. Più che nel teatro, nelle arti vive, figurative, nella letteratura e, figuriamoci, nella poesia. È nell’industria audiovisiva, musica e cinema in senso ampio, che corre il denaro. I soldi comandano, si sa. I soldi dettano le regole. Come fu in fabbrica, appunto, prima della nascita della contrattazione e della tutela sindacale e parecchio anche dopo. I lavoratori dello spettacolo, con l’eccezione dei grandi nomi che hanno già avuto successo e possono dunque mettere sul piatto il valore (economico) della loro fama, sono precari per definizione: lavorano quando il lavoro c’è, smettono quando finisce, sono fungibili, sono sempre sostituibili. Devono essere scelti, chiamati e poi confermati. Devono mettere a disposizione il loro corpo – tutti, anche chi scarica le casse del catering, ma gli attori più di tutti: il corpo come oggetto della valutazione, della prestazione, del desiderio.  Non c’è in nessun altro settore industriale, in questo momento, un rapporto così squilibrato fra chi produce e chi lavora alla produzione rendendola possibile. È come se chi paga avesse la sensazione, direi la certezza, di aver comprato l’intera architettura del comparto produttivo come si compra un giocattolo. È mio, sembra pensare. È mio e sono io che detto le regole: se non le rispetti sarai punito. Salterai un turno, mi rivolgerò ad altri, non ti darò né questa né le prossime parti, non avrai più accesso alle informazioni che io detengo, perché ho comprato anche quelle. C’è, al fondo, l’assoluta mancanza di rispetto e forse persino di comprensione dell’importanza e del valore dei mestieri che rendono possibile l’opera, che fanno funzionare il sistema. C’è, con l’eccezione di alcuni grandi nomi ai quali non si può far torto (pena una pessima pubblicità, forse uno scandalo pubblico) l’atteggiamento di chi ritiene che uno valga l’altro, come operai alla catena di montaggio. L’importante è che il nastro giri, chi lo fa girare non importa. Fuori uno, dentro un altro: se le mie condizioni non ti piacciono puoi andare, accomodati fuori. 

Mi ha molto colpita il discorso di Mira Sorvino, attrice premio Oscar: ha raccontato di come la sua carriera sia stata bruscamente e per decenni interrotta a causa di un rifiuto, reiterato, di rendersi disponibile con il Grande Produttore. Una disponibilità del corpo, chiamiamola così. Il Me too ha rivelato luci e ombre, in questi anni. Ma senza il minimo dubbio ha messo in luce un sistema che funziona così: se non fai come dico io sei finito. In ogni senso, non è solo il ricatto sulla disponibilità sessuale. Vale per tutti, in ogni declinazione del lavoro: esegui le mie disposizioni o sei fuori. 

È arrivato forse il momento di fermarsi, o per lo meno di rallentare un poco. Ripensare alla macchina, che funziona se tutti concorrono – ciascuno nel suo ramo d’impresa – e se tutti sono riconosciuti, tutelati, messi in condizione di far bene, rispettati. La funzione di un giornale, per esempio, è raccontare la realtà: non è il terminale di un’attività di promozione, è un organo di informazione e senza libera stampa, si sa, sono i sistemi dispotici che fioriscono. Gli artigiani, le maestranze sono coloro che rendono possibile la costruzione di un congegno: non sono tutti uguali, nessuno meglio di noi italiani dovrebbe saperlo. Sono quelli che hanno fatto le cose fuori schema coloro che hanno cambiato la direzione della Storia: fosse scolpire un marmo, disegnare una scena, realizzare un abito o costruire un suono, immaginare una musica. I giovani attori, registi, sceneggiatori sono oggi più di sempre sottoposti alle regole del “congegno perfetto”: si fa come si deve fare, come ha funzionato finora, come detta il mercato. Eppure, invece, ogni volta che compare qualcosa di diverso e di inatteso è lì che la rotta cambia. Ma senza rispetto, senza tutela, senza la libertà di dire quel che si ha da dire, dove il talento c’è, è di nuovo una mano di poker. Meglio poco che niente. Meglio male che niente. È un gioco al ribasso che non conviene a nessuno e che alla lunga si ritorce contro tutti. Lavoriamo perché non accada, non ci stanchiamo di farlo. Buon Primo Maggio.