Un altro Ferragosto: e se tutte le storie di politica fossero storie d’amore?

Paolo Virzì torna a scrivere (insieme al fratello Carlo e Francesco Bruni) e a dirigere le famiglie Molino e Mazzalupi nel seguito di Ferie d'agosto (1996). Due mondi pronti a entrare nuovamente in collisione tra matrimoni, influencer e partiti. Dal 7 marzo in sala

Ogni storia di politica, ad oggi, è una storia d’amore. E forse non solo oggi. Ce lo ha detto Nanni Moretti con Il Sol dell’Avvenire, quando Barbara Bobulova apre completamente gli occhi al suo protagonista-regista, dando la propria versione del film che stanno girando. È chiaro, dice la sua attrice, che l’intero dialogo su partiti e movimenti, su socialismi, comunismi e tanti altri “ismi”, sia soltanto la maniera di trovare un linguaggio tra il suo personaggio e quello del collega Silvio Orlando per dichiararsi amore reciproco. Perché al cinema, in letteratura, a teatro, un testo non può parlare solo in quanto testo, e sono più le cose non dette, le metafore, le allegorie e i significati da dover scovare il vero perno dell’intera storia.

Un po’ lo è anche in Un altro Ferragosto di Paolo Virzì – su una sua sceneggiatura scritta insieme a Francesco Bruni e al fratello Carlo. Non a caso il personaggio che se ne rende conto, seppur con estrema calma e arrivato in fin di vita, è ancora una volta impersonato da Silvio Orlando (coincidenza fortunata, ma impossibile da non considerare anche inevitabile, tenendo a mente l’immaginario degli interpreti italiani).

Un'immagine di Un altro Ferragosto

Un’immagine di Un altro Ferragosto

L’attore riprende il ruolo di un altro protagonista, il Sandro Molino del precedente Ferie d’agosto (1996), giornalista dell‘Unità che sogna di Pertini, disilluso rompicoglioni (come lui stesso si definisce, e così anche gli altri) che del mantenere fede ai propri ideali di sinistra ha sempre fatto il suo unico obiettivo. Il tratto distintivo, più di ogni altro: sia che di compagno, che di amico o di padre.

Sandro, però, come il personaggio che Orlando interpreta ne Il Sol dell’Avvenire, solo a una cosa può rimanere aggrappato. E per la seconda volta – terza se sommiamo il film degli anni novanta e l’opera di Moretti del 2023 – è la rivelazione dell’amore come bene più grande e ciò che continua a tenerlo in vita, anche mentre si avvicina alla sua morte.

Un altro Ferragosto: cosa è cambiato?

Che gli ultimi momenti di esistenza per Sandro, tornato a Ventotene per passare un’ultima estate con parenti e amici, siano il simbolismo di un’Italia le cui dottrine – a volte va bene anche dire: le utopie – sono piano piano morti non è dato saperlo. Ma è sicuramente un’ipotesi più che plausibile se si ripensa alla pregnanza sociale e politica che aveva avuto l’ormai cult Ferie d’agosto, nato sulla scia del primo governo Berlusconi (1994) e che metteva a confronto gli intellettuali di una sinistra con le aspirazioni intangibili, tra spinelli e strimpellamenti di chitarra, con le cosiddette “persone reali”, coloro che mangiano a tavola davanti ai quiz di Mediaset, che trovano essere un gioco sparare per scherzo a un mendicante e che negli istanti di convivialità intonano La società dei magnaccioni.

Ma, in fondo, non sono entrambe fazioni infelici? Sia chi ha passato gli anni a cercare una stabilità (vogliamo dire, anche qui, un amore?) che non è mai arrivato o che, se lo ha fatto, non si è mai dimostrato abbastanza. Chi ha una carriera da influencer, guadagna milioni grazie ai suoi follower, ma non ha la minima idea di cosa voglia dire venir rispettato dal partner. O chi ancora, nella calda consolazione della propria conoscenza e cultura, rimane indifeso davanti alla deriva populista che si riversa nel Bel Paese come delle ondate. E di cui ci si rende conto nei momenti peggiori, durante una qualche intervista televisiva o di fronte a un banchetto nuziale.

Mentre la rabbia, la frustrazione, anche la voglia di protestare e di dire la propria, toccava i massimi livelli nel primo Ferie d’agosto, ad aspettare il ritorno sull’isola di Ventotene delle famiglie Molino e Mazzalupi c’è un clima funebre e funesto, risvolto disilluso di chi una volta in qualcosa ci credeva, e di chi ci crede ancora, ma sa che la rivoluzione è destinata solo alla memoria.

Anche i giovani, bilancia morale nel film del 1996, in Un altro Ferragosto sono più distaccati dal reale, consapevoli del loro tempo incerto. Ci sono esempi di realizzazione e successo, soprattutto nel personale (il personaggio della figlia Martina è l’incarnazione di un equilibrio che nel film nessun altro possiede), ma è con inquietudine che vengono descritti dalla penna del trio Virzì-Bruni. Sono individui che non hanno trovato un ponte di comunicazione con i loro padri e le loro madri. Che non sanno che genitori saranno nel futuro, se vorranno esserlo, e se continueranno a spostarsi lasciando per sempre l’Italia, già trampolino per saltare e andarsene a studiare o lavorare all’estero.

Tutto muore, tranne l’amore

Mentre tutto finisce e muore sull’isola di Ventotene, mentre le memorabilia storiche vengono abbattute, il ricordo cancellato e i partiti sono solo l’opportunità di dare spazio alla pancia del paese che, però, della storia di quel paese non sa un bel niente, in Un altro Ferragosto è il sentimento di cui parlava anche Nanni Moretti a rimane. Il bisogno, il desiderio, a tratti la volontà di amare e di essere amati. Nella condivisione di un pensiero, di un’ideologia che si fa sempre più flebile, ma su cui, sopra a tutto, regnano i rapporti. La sola cosa, ci dice Virzì, per cui vale la pena resistere.

Andrea Carpenzano e Silvio Orlando in Un altro Ferragosto

Andrea Carpenzano e Silvio Orlando in Un altro Ferragosto

Mentre in Siccità prosciugava il Tevere rappresentando la catastrofe della fine imminente come un fiume senza più la sua acqua, per il ritorno sull’isola del comune latino Paolo Virzì ci sbatte in faccia il nostro “fare schifo” – viene detto nel film senza mezzi termini – e, probabilmente, quanto da qui in avanti potremmo solo andare peggiorando (in un già memorabile monologo del personaggio di Daniela di Emanuela Fanelli, mai stata così brava). E che sono perciò le persone tutto ciò che ci resta. Non è retorica, non è sconfitta, è solo l’unica cosa che ci rimane.

In fondo lo stesso regista lo ha ammesso, sono stati i personaggi e il racconto famigliare a farlo tornare sui vecchi passi. Anche il periodo storico, ma principalmente loro. A confrontarsi con la paura dell’ignoto, di una morte che tocca tutto. E che, come lo fa con la politica, lo fa anche con l’amore, tenendo però a mente che se i partiti sono portati a succedersi, a cambiare, a rimanere sempre uguale è la nostra necessità di amore. Di amore e di lotta.