Katika Blu: i bambini soldato nella Repubblica del Congo, dove i fucili diventano giocattoli

Parlano i registi Stephane Xhrouet e Stephane Vuillet del film in concorso ad Alice nella città. "La storia di Bravó è quella di tutti i ragazzi: per loro recitare è stato un gioco, un progetto che li ha tenuti occupati nel centro di accoglienza"

Tra le foglie colorate dal sole di un verde più acceso, un gruppo di adolescenti gioca a rincorrersi brandendo delle canne di bambù e altri oggetti rimediati come se fossero fucili e pistole. Un occhiolino per prendere la mira e si cattura il prigioniero. Lo spettatore sa che gli adolescenti che giocano nel film Katika Blu sono stati dei bambini soldato. Per questo il debole fruscio delle foglie e i passi felpati per nascondersi durante il gioco restituiscono una commozione che fa rumore.

Il film belga, in anteprima mondiale e in concorso ad Alice nella città, è di due registi, Stephane Xhrouet e Stephane Vuillet che si sono recati in uno dei Centri di transito e orientamento (CTO) nella Repubblica Democratica del Congo. Negli ultimi dieci anni c’è stata molta cinematografia sui bambini soldato, raccontano a THR Roma, “ma più sulla loro vita sul campo mentre impugnano i Kalashnikov”. Loro hanno voluto cambiare punto di vista: “Ci interessava guardarli nella posteriorità, volevamo vedere che cosa accadeva dopo, quando questi bambini escono dai gruppi armati”.

Katika Blu: una storia, 21mila bambini

La storia di Bravó, il protagonista di Katika Blu, è una che vale per gli oltre 21mila bambini soldato che ci sono in Africa (secondo gli ultimi dati Unicef aggiornati al 2021). E la Repubblica Democratica del Congo sembra essere il posto più pericoloso per i bambini. “Abbiamo scritto questa storia partendo dalle loro testimonianze”, dicono i registi. I ragazzi vengono rapiti da parte di gruppi armati ribelli che fanno irruzione nei loro villaggi, vengono quindi portati via dalle loro famiglie e arruolati andando a vivere nascosti nella foresta.

“In tutti i miei film ho una particolare attenzione al tema familiare” spiega Vuillet. “Credo che ognuno abbia un luogo che gli appartiene e poi, un giorno, tenta di unirsi ad altri per formare la propria famiglia, che non è per forza quella di sangue ma quella che ha scelto”, continua. “Nel film vedo questo: un bambino che viene dalla foresta, dalla guerra, per uscirne dovrà trovarsi una nuova famiglia e la troverà nei bambini del centro di accoglienza”.

Xhrouet invece ha un’ossessione per la pedagogia che lo ha spinto a girare il film. “Sono affascinato da come l’equipe congolese gestisce il CTO, un lavoro di gruppo, collettivo, di autogestione”, dice. “Per me è stato più che un film, è stato un incontro che mi ha permesso di allestire un cinema per questi ragazzi, un modo per tenerli occupati nella loro nuova vita dopo quella nella foresta”.

La foresta che uccide i bimbi

Bravó, Siri e tutti gli altri ragazzi del CTO interpretano loro stessi. “Vengono da villaggi remoti, non conoscono la realtà cinematografica, questo gli ha permesso di non avere alcuna pressione nel recitare, per loro era un gioco”. Bravó avrebbe dovuto accompagnare i registi per l’anteprima romana ma non aveva ottenuto il visto. “Adesso però è tutto risolto e potrà venire con noi in Europa agli altri festival del cinema, questo gli dà molta gioia”. Nei piani dei registi c’è comunque l’intenzione di tornare nel CTO per una proiezione ufficiale che coinvolga tutti i membri del centro.

“Il CTO nel film incarna sia un rifugio sia una prigione”, raccontano i registi. I centri sono pensati per essere dei luoghi di transito. Nel tempo in cui il ragazzo viene ospitato gli operatori cercano di ristabilire un contatto con la sua famiglia. Finiscono però per diventare delle sistemazioni permanenti. Spesso le famiglie dei giovani non ci sono più oppure il villaggio in cui vivono rende impossibile un loro ritorno. Non di rado infatti quando i bambini vengono rapiti sono obbligati a commettere azioni atroci, come l’uccisione di uno dei genitori. Questo provoca un sentimento di odio e repulsione da parte degli altri membri del villaggio.

“Tutta questa violenza noi volevamo solo evocarla”, dicono i registi. “Quello che succede nella foresta non viene visto con dei flashback, volevamo catturare l’istantanea del dopo”. Ci sono però dei riferimenti sottili, non nascosti ma precisi, che per questo spiccano nella loro crudeltà. “Quando per esempio arriva al centro una capra e i bambini la sgozzano per poi mangiarla, uno di loro dice ‘facciamo come nella foresta, quando si uccidono le persone”.

Katika Bluu nella lingua swahili significa “nel blu”. “In francese è un’espressione che usiamo per definire la sensazione di stare nell’incertezza, nell’irreale, nel sogno”, spiegano i registi. Il sogno, perché i bambini hanno tutta la vita davanti.