Signs of Love, la recensione: storia d’amore e sacrificio nell’America in crisi

Hopper Jack Penn e Zoë Bleu sono i protagonisti del debutto al lungometraggio di Clarence Fuller. Un film dallo spirito indie che intreccia dramma familiare e problematiche sociali

Una madre assente e un padre tossico. Un nipote di cui si prende cura come se fosse un fratello e una sorella che ha perso la bussola dell’esistenza. Frankie (Hopper Jack Penn, figlio di Sean Penn e Robin Wright) è un ragazzo come tanti a Port Richmond, Philadelphia. Cresciuto in un sobborgo difficile dove la tossicodipendenza e la criminalità sono la norma e i sogni non esistono. Parte da elementi autobiografici Clarence Fuller per Signs of Love, il suo debutto al lungometraggio dal budget contenuto e lo spirito indie.

Signs of Love, un amore contro ogni probabilità

Il destino di Frankie sembra prendere un percorso in risalita quando incontra Jane (Zoë Bleu, figlia di Rosanna Arquette), ragazza sorda di una famiglia benestante della quale si innamora. Quel sentimento gli permette di poter credere in un futuro diverso da quello a cui era predestinato. Un amore che va contro ogni probabilità mettendo in connessione due individui che appartengono a mondi diversi. Ma Signs of Love non ci tiene ad essere uno di quei film in cui il finale è già scritto, consolatorio, scontato. Tutt’altro.

A Fuller interessa raccontare una storia di amore e sacrificio sullo sfondo di un’America in cui il sogno è naufragato, perso dentro una dose. Il quartiere al nord di Philadelphia in cui è ambientato il film rappresenta la periferia di tante altre città statunitensi abbandonate a loro stesse e che trovano nella dipendenza, nello spaccio e nella durezza delle leggi della strada l’unico linguaggio mai conosciuto.

Un film indie, tra dramma familiare e problematiche sociali

Debitore di un’estetica da videoclip in cui il regista si è costruito una fortunata carriera, Signs of Love risponde ai canoni del film indipendente nelle inquadrature, nei colori, nel tono, intrecciando dramma familiare e problematiche sociali. Hopper Jack Penn e Zoë Bleu mettono in scena una coppia agli antipodi eppure credibile nella loro capacità di trovare un modo di comunicare che vada oltre la parola e lo stesso linguaggio dei segni (che nei gesti della Bleu diventa morbido come una danza).

Un film dove non tutto sempre funziona ma che ha in sé una certa autenticità. Un’impellenza a raccontarsi, a mostrare il profilo di un Paese pressoché abbandonato a se stesso, senza prospettive, in cui ci si muove come zombie. Ma Clarence Fuller sottolinea come l’incontro con l’altro, l’amore e il confronto possono innescare piccole rivoluzioni personali e raddrizzare anche la più instabile delle rotte. Un passo alla volta.