Silvio Berlusconi, il tycoon che sedusse un intero Paese

Il leader di Forza Italia, ex premier e fondatore di Fininvest, Mediaset e Medusa aveva 86 anni. Era ricoverato da quattro giorni al San Raffaele di Milano, da cui era uscito pochi giorni fa dopo un ricovero durato un mese e mezzo

Piaccia o no, con la morte di Silvio Berlusconi se ne va l’uomo che ha cambiato l’audiovisivo in Italia, l’immaginario del piccolo schermo (con Fininvest prima e Mediaset poi, i nomi che ha preso la sua holding televisiva negli anni) e del grande (con la cosa di produzione cinematografica Medusa e ancora prima la joint venture con i Cecchi Gori nella società Penta, dal 1989 al 1995, che ha costruito la library di film più nutrita e completa d’Italia). Se qualcuno dovesse rimanere sorpreso dalla rilevanza che anche su The Hollywood Reporter Roma trova il decesso dell’ex premier, è perché generazionalmente lo (ri)conosce solo come uomo politico: ma per chi lo ha visto nascere quasi dal nulla negli anni ’70 è soprattutto un palazzinaro milanese che amava gli aneddoti cinematografici – mitico quello in cui lavorava nei cantieri di Milano 2 e quando arrivavano alti dirigenti di società che volevano comprare uffici chiamava un ipotetico fratello e tornava dopo essersi tolto la tuta da operaio sostituito da blazer e cravatta – diventato poi tycoon televisivo e cinematografico.

Silvio Berlusconi, tra tv e cinema, la storia

Pioniere delle tv private – in Italia, ma anche in Francia (TeleCinq) e in Spagna (TeleCinco, con una Raffaella Carrà mattatrice) – la sua epopea da imprenditore catodico nasce da tre idee audaci e geniali: una tv via cavo per la sua Milano 2, la mitica TeleMilano per cui firmerà Mike Bongiorno nel 1979 (dopo un incontro tra i due a fine 1977), che poi diverrà Canale 5; l’idea di combattere alla pari il colosso pubblico, con lo stesso numero di reti (prendendo Italia 1 da Rusconi nel 1982 e Rete 4 nel 1984, da Mondadori e in seguito una legge Mammì, norma che cristallizzò il duopolio in essere Fininvest-Rai, a proteggerlo, la prima ad personam o almeno ad aziendam); partire con una rete di tv locali da fornire con contenuti in vhs per far sì che trasmettano tutte contemporanee così da diventare di fatto un network televisivo, anche grazie all’aiuto del fedele sodale Adriano Galliani, titolare di un’azienda produttrice di antenne, con cui avrebbe potenziato a dismisura il segnale dell’allora, appunto, TeleMilano.

Una delle tante vicende al limite (e a volte oltre) della legalità su cui si è fondata una carriera – da costruttore come da editore, televisiva come politica – costellata da angoli bui quanto erano brillanti le paillettes con cui decorava la strada percorsa.

Dalla pubblicità al cinema

Una pratica che gli verrà contestata dalla magistratura e che vedrà molta parte della sinistra difenderlo, ironia della sorte, in nome della libertà d’espressione e informazione. Perché pochi ricordano che Silvio Berlusconi prima della politica veniva considerato un editore illuminato, capace di dar libertà e opportunità a tutti, da molti intellettuali di sinistra a Indro Montanelli, il famoso giornalista gambizzato dai terroristi nel 1977 e per cui e con cui fondò il quotidiano “Il Giornale” oltre a offrirgli ospitalità, da vivo, nel mausoleo di famiglia ad Arcore, dove lui stesso verrà sepolto, ricevendone un elegante rifiuto con la frase “Domine non sum dignus”, ovvero “Padrone, non ne sono degno”.
Non ci cascò un granché il premio Oscar Federico Fellini, che con il claim “non si interrompe un’emozione” combatté contro le pubblicità durante i film in televisione, e neanche Ettore Scola, che dopo la “discesa in campo” fu usato da Sua Emittenza come foglia di fico (“sono democratico e infatti con Medusa produco l’ultimo film di Ettore Scola”) e che pur con un contratto in essere, si rifiutò di continuare la collaborazione.

Contratto con una penale notevole che Berlusconi non esercitò, in cambio del fatto che il cineasta non girasse altri film. Non un puntiglio tardivo, visto che l’autore già a metà anni ’80 rifiutò un’intervista all’allora Fininvest dicendo “non parlo con le tv di Berlusconi”.

Commedie e grandi autori

Televisioni note per la mercificazione del corpo femminile – tutti ricordano il programma televisivo settimanale Drive In, ma l’istituzionalizzazione della valletta scosciata era precedente, a partire dai quiz, e sarebbe stata costantemente perpetrata e peggiorata negli anni – e per un abbassamento della qualità collettivo del gusto dello spettatore del piccolo schermo. Diversa la storia di Medusa, che dietro a una produzione di commedie non particolarmente raffinate – ma per giustizia va riconosciuto che quelle più grevi erano in capo alle produzioni vacanziere e cinepanettonesche della Filmauro – ha però ospitato molti grandi autori, divenendo per anni il competitor della Rai, come d’altronde Berlusconi era anche nel campo televisivo.

Con la tv ha cambiato anche il modo di pensare degli italiani, con format divenuti cult, dal Mundialito nel calcio fino al Maurizio Costanzo Show, un circo di umanità variegate e improbabili mischiate ad artisti, filosofi, gente comune e a un populismo televisivo ante litteram, con il mitico spin-off Uno contro tutti di cui rimangono nella memoria del paese moltissime puntate, a partire da quella da storia della televisione con Carmelo Bene. A Mediaset si deve il primo telegiornale di una tv privata – il Tg5 di Enrico Mentana – così come il primo contenitore domenicale alternativo a quelli della Rai (Buona Domenica), così come la tv che entrava nelle case per indagarne il dolore o solo l’intimità, dall’innocuo quiz Tra moglie e marito fino ai programmi di Maria De Filippi (C’è posta per te, Uomini e donne su tutti) passando per Stranamore e arrivare a Temptation Island. Sempre sulla tv del Biscione approda il primo reality – Il Grande Fratello – e ancora prima rivoluziona il costume Non è la Rai, forse il momento più basso della nostra tv in cui lolite minorenni divenivano carne da esporre, producendosi in numeri di canto in playback e di balli ammiccanti. Ma anche da lì nacquero talenti che si imposero persino nel cinema, in seguito, come Ambra Angiolini e Sabrina Impacciatore, ora diva in The White Lotus.

Berlusconi, da Sua Emittenza al Caimano, sempre nel segno della tv

E sempre in tv mostrerà un’altra delle sue qualità, se così possiamo definirla. Il non accettare mai un no e di prendersi a ogni costo ciò che voleva. Che fossero gli anchormen Michele Santoro, Pippo Baudo (che però rinuncerà a un lauto contratto e pagherà una maxipenale per tornare da Mamma Rai), Raffaella Carrà strappati al broadcast pubblico oppure, nel calcio, il giovane campione Gianluigi Lentini a 42 miliardi in anni in cui Gianluca Vialli, il centravanti della nazionale, ne costava 30 (e di quel superprezzo per il tornante granate, pare, 10 fossero fuori bilancio). Se si dovesse riassumere Silvio Berlusconi in una riga, in un epitaffio sarebbe “l’uomo che ha fatto saltare il banco e le regole di ogni settore in cui ha operato”.

Il Berlusconi Universe gira inevitabilmente, e sempre, attorno alla televisione. Sono “televisivi” i referendum che rappresentano il suo primo esame di maturità politico. Non tutti ricordano infatti che, dopo il clamoroso successo contro la “gioiosa macchina da guerra” del Pds (Partito dei Democratici di Sinistra, erede dell’ex PCI, nome assunto dopo il 1989) e dei suoi alleati, guidati dal candidato premier e segretario del partito Achille Occhetto, e il ribaltone subito successivo causato da Umberto Bossi (raccontato in 1994), Silvio Berlusconi si ritrova con l’azienda “commissariata” dall’Ad Franco “Kaiser Franz” Tatò, impegnato nel salvarla da un indebitamento record (3,4 volte il capitale) e un futuro politico brillante che sembra già alle spalle. Ma di fronte a tre quesiti – sulle concessioni televisive, le interruzioni pubblicitarie e raccolta pubblicitaria radiotelevisiva – il popolo italiano gli regala un trionfo quasi paradossale.

Laddove i quesiti chiedevano che fosse impedita una concentrazione eccessiva di concessioni televisive nelle mani di pochi, l’eliminazione delle interruzioni pubblicitarie e la modifica del tetto massimo di raccolta pubblicitaria per le tv private, insomma norme che sarebbero andate a favore del pubblico, l’elettorato si schiera compatto non per il proprio ovvio interesse ma, come spesso accadrà anche in seguito, per quello di Silvio Berlusconi. Basterà agitare lo spettro dell’impossibilità di vedere Beautiful alla famosa casalinga di Voghera per vincere a mani basse quelle consultazioni referendarie.

Il ventre molle del Paese

Lì capirà, Sua Emittenza (il soprannome che gli davano i suoi detrattori), di aver definitivamente sedotto un Paese e di tenerne in pugno il ventre molle, l’anima profonda. Lo aveva fatto, come suo solito, porta a porta (minuscolo, anche se l’omonimo contenitore condotto da Bruno Vespa è stato uno dei suoi luoghi d’elezione): quando decide la discesa in campo “perché l’Italia è il Paese che amo” lo fa con lo stesso esercito con cui aveva messo su Publitalia, la sua concessionaria di pubblicità interna per le reti televisive, con successo. Molti agenti di quell’azienda, infatti, con un paio di settimane di formazione e un kit da perfetto politico, vengono mandati in provincia (soprattutto) e nelle metropoli a diffondere il vangelo secondo Silvione. Diventano attivisti e in molti casi candidati. Se il metodo vi sembra familiare, non è altro che quello usato da Casaleggio e soci, dal primo V-Day (nel 2007) fino al 2018, in cui otterranno il 30% delle preferenze dei votanti alle elezioni politiche. Peraltro ai pentastellati non fate sapere che i primi a usare “Onestà!” come parola d’ordine NON sono stati loro, ma i peones forzitalioti e ovviamente Berlusconi, peraltro nell’unico caso in cui lasciò a uno slogan lo spazio di solito dedicato a una sua enorme foto sorridente.

Come suggerisce l’ultima inquadratura della serie tv 1994, però, con Stefano Accorsi nella parte di Leonardo Notte che attraversa Piazza Duomo deserta, probabilmente Sua Emittenza pensava già da due anni alla politica. Dieci paffuti bambini, infatti, invasero in cartelloni 6×3 tutta l’Italia nel 1992, e vicino alle loro facciotte compariva – nell’anno in cui il suo Sacchi non riuscì a qualificarsi per l’Europeo da ct della Nazionale di calcio – una scritta. Fozza, Itaja. Una prova generale secondo molti, l’ex ministro della Repubblica Franco Bassanini in testa.

Silvio Berlusconi, il “presidente operaio”

Con gli stessi cartelloni, lo stesso formato, anni dopo impronterà la campagna elettorale più “memata” della storia delle consultazioni democratiche, quella in cui compariva come presidente operaio, imprenditore e innovatore. Claim mitico come “il milione di posti di lavoro”, “il miracolo italiano”, “Meno tasse per tutti”, il contratto con gli italiani, “abolirò l’ICI”. Idee geniali che mostravano costantemente una spregiudicata capacità di tenersi in contatto con la parte più intima e infima degli italiani.

Con Silvio Berlusconi muore il modello di comunicatore, imprenditore e politico alla Gabriele D’Annunzio, superomistico e parossistico, ostinatamente seduttivo e senza alcun timore di grottesco, convinto di poter superare ogni limite. Morale, politico, legale, sportivo. E ovviamente sessuale.

Per vincere, sempre. Ma soprattutto piacere. A tutti.