Paolo Pierobon: “Mi sono concentrato sul Berlusconi delle intercettazioni, non su quello pubblico”

L'attore visto recentemente in una splendida interpretazione di Pio IX in Rapito di Marco Bellocchio, racconta come si calò nei panni del tycoon nella serie 1994 e le emozioni provate alla morte di chi lo ha interpretato così a lungo

Elio De Capitani ne Il Caimano, Toni Servillo in Loro, l’uomo senza volto (o quasi) in Shooting Silvio. Silvio Berlusconi non ha fatto solo la tv e il cinema come produttore e imprenditore, ma ne è stato anche attore, interpretato da mille volti. Però forse quello più sincero, certosino in molte sfumature, potente nell’essere un ingranaggio della sua stessa macchina, è quello di Paolo Pierobon, in 1993 – poche pose – e 1994, diretto da Giuseppe Gagliardi e scritto dal trio Rampoldi-Fabbri-Sardo. Giocato su campi diversi, quelli quasi discreti di un uomo pedinato nella sua quotidianità lavorativa, quasi di spalle delle prime immagini, e quello quasi clownesco, carismatico, sopra le righe della villa in Sardegna (che ha colpito l’immaginario di tanti registi). Pierobon ha saputo cogliere molti lati interessanti e inaspettati di Sua Emittenza.

Paolo Pierobon, che effetto fa la morte di Silvio Berlusconi in chi lo ha interpretato?

Sono dispiaciuto, molto, pensavo ce la facesse. È sempre stato un uomo di una vitalità estrema, al di là di come la possa pensare sulla sua parabola esistenziale e politica. Io per impersonarlo ho dovuto sospendere il giudizio: se lo avessi giudicato, che spazio avrei lasciato al personaggio? Non ero a teatro con il metodo brechtiano, dovevo essere Silvio Berlusconi, non puntare il dito contro di lui. È stato parte della mia vita, per tre anni, la cosa ovviamente non mi può lasciare indifferente.

Ciò che sembra più strano, ora, è ricordare quanto fosse divisivo. Un tempo si scendeva in piazza per fare caroselli se un suo governo cadeva, si celebrava un avviso di garanzia ai suoi danni, alcuni si auguravano (altri lo hanno fatto fino a ieri) la sua morte. Adesso c’è un’atmosfera di tristezza diffusa.

Esultare è una cazzata, non è morto Hitler, Stalin o Pol Pot. Si poteva odiare, ma non era un dittatore. Dobbiamo imparare a ragionare con lucidità, a dare la giusta proporzione alle cose. Anche questo affetto diffuso, vorrei capire quanto sia sincero e invece quanto sia paraculo, visto chi è al governo adesso. In Italia si è esultato per dei sequestri, per delle cadute, per degli esili, basta che cambia il vento un attimo, ti ritrovi da figo a coglione in una giornata. Qui da noi succede in ogni mestiere, non dobbiamo stupirci più di tanto.

In effetti per vent’anni abbiamo riempito le piazze per un uomo che poi abbiamo appeso a testa in giù appena ci è convenuto. Come si interpreta Berlusconi? Una cosa è essere Pio IX in Rapito, i cui riferimenti possono essere dei quadri o dei libri di storia. Un’altra cosa cosa è essere l’uomo che è comparso di più, negli ultimi decenni, in tv, sui manifesti, nelle piazze. Il dominatore dell’immaginario collettivo dopo la caduta del Muro di Berlino. 

Ho cercato di concentrarmi non sul Berlusconi a favore di telecamera, ma sul Berlusconi delle intercettazioni che non sapeva di essere visto o sentito. E tu capisci subito che ha una voce totalmente diversa da quella pubblica, impostata, con cui cerca il consenso della folla. Io ho cercato il Berlusconi privato, più vero. E poi non mi scordo mai di stare sotto al ruolo, di non prevaricarlo. Cerco sempre di vedere i personaggi più grandi di me, se ho sotto di me un cielo più grande posso volare di più. 

Giorgio Gaber diceva: “Non ho paura di Berlusconi in sé, ho paura di Berlusconi in me”.

Quella di Gaber è stata una chiave fondamentale per affrontare con equilibrio quel ruolo. Nell’animo italiota c’è già tutto Berlusconi ben prima della sua nascita. Quell’impeto dannunziano, quell’ossessione di essere istrionici, affabulatori e seduttori, il puer aeternus che si stupisce che al suo afflato vitale, alla sua ambizione, alla sua voglia di avere tutto, di trovare sempre qualcosa di nuovo possano essere posti limiti come la legalità, il rispetto per la dignità di altre persone o altro. Comandare è meglio che fottere non se l’è inventato mica lui. Che poi, nel suo caso, concedimi la battuta, era più comandare come fotti, o viceversa.

Il puer aeternus. Lei rischia di farmelo diventare davvero simpatico.

Berlusconi è entrato in politica a 58 anni, è determinante per capire chi fosse. Quando mi hanno scritturato, sono partito proprio da qui: cos’avrebbe fatto Silvio Berlusconi di fronte a una sfida inedita e inaspettata, alla proposta di una vita totalmente diversa? Ci si sarebbe gettato senza prudenza, rivendendosi come esperto e fenomeno di quel campo. Diventandolo, come era già successo nell’edilizia e nell’industria dell’intrattenimento. Non si tratta di trovarlo simpatico, anzi, ma di capire la sua eccezionalità. In un momento in cui altri si sarebbero ritirati a vita privata a godersi un’enorme fortuna, lui ha ricominciato da capo.

Paolo Pierobon nella quinta puntata di 1994 interpreta Silvio Berlusconi

Paolo Pierobon nella quinta puntata di 1994 interpreta Silvio Berlusconi

Il momento più divertente della sua avventura nel corpo di Silvio?

Non è stato facile capirlo, soprattutto all’inizio. Ma in 1994 mi ha dato la possibilità di esplorarlo: da attore però non ho dubbi, la puntata più divertente è stata la quinta in 1994, in cui era nella sua villa in Sardegna, Villa Certosa, a tentare in ogni modo di convincere Umberto Bossi a rimanere nell’alleanza. Invano.

Da intellettuale ed artista, pensa che Berlusconi sia stato un corruttore della nostra tv e del nostro cinema? Sarebbero stati migliori senza di lui?

Le faccio io una domanda. Quando abbiamo avuto il periodo migliore per il nostro cinema? Sotto la Democrazia cristiana dei mafiosi.