Bruce Springsteen, miracolo rock al Circo Massimo: come Indiana Jones, l’eroe è tornato (ma è un eroe dolente)

La chitarra brandita verso il cielo, una strabiliante tempesta di musica e speranza: il Boss e la E Street Band hanno suonato per quasi tre ore lasciando i centomila fan senza fiato. L'epifania si è ripetuta: è sempre lui, eppure è cambiato. E non tutte le domande hanno avuto una risposta

La chitarra è brandita verso il cielo azzurro profondo, un cielo reso livido dalla pioggia che nel pomeriggio ha bagnato la città eterna. Saranno centomila qui al Circo Massimo, palpitano come fossero un unico organismo. Sì, come sempre. L’elettricità nell’aria, densa e calda, tutti gridano “Bruce, Bruce, Bruce”: sì, l’eroe è tornato. Come Indiana Jones, come i supereroi dai multiversi infiniti, come la speranza che non muore mai.

Anno domini 2023, a sette anni dal suo ultimo tour italiano, Bruce Springsteen suona il suo cambiamento, impugna l’età che avanza di fronte ai centomila – vecchi, giovani, bambini, ragazzi, eterni ragazzi, anziani – e la trasforma in una celebrazione che parla di sé e ovviamente di tutti di noi, del tempo che passa, degli amori che furono, dei compagni di viaggio perduti. È, come sempre, un’immensa messa laica, una cerimonia gospel in versione rock’n’roll, ma questa volta Bruce e la sua forse immortale, impeccabile e incredibile E Street Band hanno messo in scena il cambiamento, il suo dolore, la sua ineluttabilità, ma anche la sua forza.

Presi quasi alla sprovvista

Se ancora nel 2016 – l’ultima volta del Boss al Circo Massimo – la sfida era quella di portare all’estremo la musica, la tensione, il grande romanzo americano tramutato in suono, il ritmo e l’energia, i perdenti, i sommersi, le anime perdute ed il riscatto, con concerti che sfioravano le quattro ore e le canzoni estese fino all’estenuazione, oggi Springsteen offre una versione di sé più controllata, se vuoi, ma pur sempre esplosiva: due ore e cinquanta spaccate di un concerto inesausto, una scaletta con pochissime variazioni rispetto alle tracklist diverse ogni sera, eppure l’impatto del suono, della sua voce, della sua anima, è ancora potentissimo. Come sempre.

Così vieni preso quasi alla sprovvista quando Bruce e i suoi salgono sul palco, alle 19.30 precise: l’avvio è iconico (la comunità degli springsteeniani lo sa bene, nessuno qui si è fatto intimorire da pioggia e fango), My Love Will Not Let You Down, forse è un messaggio, già una promessa. E Bruce lo capisci subito che è quello di sempre, ma anche no: le scarpe da ginnastica con suola bianca al posto degli stivali, i movimenti appena un po’ più lenti, niente salti e capitomboli: non finge di non avere i 73 anni che ha, Bruce, eppure rimane una specie di miracolo, una forza della natura.

La E Street Band – questa volta in formazione big band, con una notevolissima sezione fiati e un gruppo di coristi – infila una dietro l’altra No Surrender, Ghosts, Death To My Hometown, Darkness on the Edge of Town come non se non ci fosse un domani, come pietre lucenti lanciate nello spazio. “Un tempo era tutto un domani ed un hello, oggi sono di più gli ieri e gli addii…”, quasi sussurra Springsteen nel microfono. “Dobbiamo amare e vivere il momento”.

L’alluvione e l’epifania

Certo, nel frattempo c’è stata una pandemia, è arrivata una guerra (in No Surrender Little Steven esibisce una chitarra con i colori dell’Ucraina), molte certezze si sono dissolte al vento: ancora una volta il ritorno di Bruce era stato invocato, così come accadde subito dopo l’11 settembre 2001. Per questo in tanti si attendevano una parola, un cenno, un gesto, dopo l’apocalittica alluvione in Emilia Romagna. Molti ricordano un concerto dopo il terremoto dell’Aquila, quando Springsteen rispose con una struggente My City of Ruins.

Tutti lo sanno: lui c’è sempre stato quando la storia ha battuto un colpo. A Berlino Est, vicino al muro, quando suonò Chimes of Freedom di Dylan (“Non sono venuto qui per cantare a favore o contro alcun governo, ma soltanto a suonarvi rock’n’roll, nella speranza che un giorno tutte le barriere vengano abbattute”), nel 1980 contro il riarmo nucleare, ogni volta per sostenere le proteste dei lavoratori oppure nel cantare la disperazione dei migranti al confine messicano. E invece, niente. Non un accenno a chi è Lost in the Flood.

Il suo silenzio è stato notato pochi giorni fa a Ferrara, oggi a Roma: sì, qualcosa è cambiato in Bruce. Al di là delle polemiche dei giorni scorsi (avrebbe dovuto annullare il concerto di Ferrara? Aveva senso annullare il concerto di Ferrara?), l’epifania al Circo Massimo in parte spazza via i dubbi. Ma non completamente: è come se avesse voluto dirci che oggi è venuto per parlare di un Bruce più “privato”, pur nella fulmicotonica forza liberatoria del suo live act.

E’ il Bruce che ricorda il suo amico George Theiss, scomparso pochi anni e membro fondatore della prima band del Boss, The Castiles: un addio che fa del Boss, così racconta, l’ultimo membro sopravvissuto di quel gruppo (quando essere in una rock band era un pezzo della “rivoluzione americana” ), ossia the Last Man Standing, pezzo acustico che Springsteen offre ai centomila alla maniera spoglia, essenziale, quasi biblica, del primo Dylan, del sempiterno Woody Guthrie. È il Bruce che interrompe una lucente, potente e disperatissima Backstreets e racconta la storia di un amore lontano (forse la sua fidanzata before the fame?), ponendosi la mano sul cuore: “Ricordo la foto del tuo matrimonio, avevi 19 anni, tengo queste memorie per sempre dentro di me”. E’ il Bruce di una inedita amarezza: è cambiato lui, sono cambiate le nostre vite, noi tutti siamo cambiati.

Lacrime, gioia e rock’n’roll

Per il resto è un carosello di ritmo, suono e colori moltiplicato per mille, probabilmente tuttora in assoluto il miglior rock’n’roll show del globo terracqueo: Because the Night fa palpitare i cuori, l’assolo di Nils Lofgren ancora, come sempre e forse per sempre, ti toglie il respiro, per Thunder Road cadono le lacrime (tutta la prima strofa è cantata integralmente dai centomila) ed è, anch’essa, la ripetizione del miracolo che può essere una canzone quando è un pezzo delle nostre vite attraverso i decenni.

Sorprendente e formidabile l’inserto soul, con una Nightshift presa in prestito dai Commodores e Bruce che vocalizza come un usignolo con la torrenziale luminosità oltre i confini del jazz di Kitty’s Back e di E Street Shuffle, mentre Badlands e Born to Run – grazie anche al titanico “Mighty Max” Weinberg alla batteria – rimangono “la terra che ti trema sotto i piedi” (così ebbe a dire il Boss medesimo), come Dancing in the Dark è liberatoria e Tenth Avenue Freeze Out replica la potenza soul della nostalgia e dell’eterno presente (ovvio, scorrono, come sempre, le immagini dei compianti compagni di strada Clarence Clemons e Danny Federici).

Un saluto struggente

Un concerto di Springsteen è ancora un rito formidabile, l’appuntamento che non si può mancare (ad un certo nella folla scatta il clamore, quando nello spazio vip sfilano a sorpresa celebrità variamente assortite come Sting e moglie, Woody Harrelson, Chris Rock, Nick Cave, Lars Ulrich dei Metallica ed il batterista dei Pink Floyd Nick Mason, ma anche Edoardo Leo e Luca Marinelli).

Chi lo sa più di qualunque è altro è lui, il Boss: ormai la notte è a un passo, lui regala la sua armonica ad una ragazza che la reclamava con tanto di cartello (“è per la mia mamma”), i bambini e persino signore anziane vengono issate sulle spalle, ad un’altra fan dona un plettro e lei esplode in un pianto dirotto.

In tutta la gioia, è I’ll See You in My Dreams il suo addio di questa lunga notte romana ai piedi delle rovine antiche, sotto il cielo livido del Circo Massimo, ed è un saluto struggente: “Ti vedrò nei miei sogni, ci incontreremo di nuovo e di nuovo rideremo, ti rivedrò nei miei sogni, sì, vicino alla curva del fiume: perché la morte non è la fine”. Addio Boss, bentornato Bruce.