Alessio Boni: “Il mio Fenoglio gioca a scacchi con la psiche”. Il nuovo, anomalo, maresciallo Rai

L'attore presenta la miniserie, in onda dal 27 novembre per quattro prime serate, tratta dai romanzi di Gianrico Carofiglio. Una storia di mafia che "deve essere raccontata senza essere edulcorata". L'intervista con THR Roma

“È il personaggio più anomalo e dicotomico che abbia mai interpretato”, afferma Alessio Boni presentando il suo Pietro Fenoglio. Lui che dal Matteo Carati de La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana (2003) è stato sempre attento a non scegliere altri ruoli nelle forze dell’ordine, interpreta il particolare maresciallo dei carabinieri nato dalle pagine dell’ex pm Gianrico Carofiglio.

Una scelta che ha compiuto, afferma, per la veridicità della storia, per la capacità delle parole di Carofiglio e degli sceneggiatori di raccontare con sincerità e credibilità il mondo criminale e quello della legge, in cui non basta separare idealmente il bene dal male.

Il contesto è la Bari dei primi anni Novanta, dall’incendio doloso del teatro Petruzzelli alle guerre fra clan che hanno portato alla scoperta della criminalità organizzata pugliese. “È un dovere della televisione di Stato raccontare ciò che successo” – afferma nell’intervista con The Hollywood Reporter Roma – “e farlo senza edulcorare i fatti”.

Il metodo Fenoglio – L’estate fredda, miniserie in quattro episodi diretti da Alessandro Casale, andrà in onda dal 27 novembre in altrettante prime serate. Nel cast anche Paolo Sassanelli, Giulia Vecchio, Giulia Bevilacqua e Francesco Centorame.

Quali sono i punti di vicinanza e lontananza del maresciallo Fenoglio dall’ampia cornice di marescialli, commissari e pm delle fiction Rai?

Pietro Fenoglio è davvero una via di mezzo tra il vecchio Maigret, Sherlock Holmes e Giorgio Ambrosoli, che la Rai ha anche già raccontato. L’outsider, in questo caso è Gianrico Carofiglio che ha avuto esperienza vera sul campo, è stato pm a lungo, ha vissuto nella Bari negli anni dei fatti efferati, e quindi ha saputo portare dentro la storia una certa veridicità. Maniacale, specifica. Non a caso ha voluto ambientare la storia nella sua città, con un protagonista estraneo a quella vita.

Un sabaudo, uno dei piemontesi, che proprio non c’entra niente, che si è dovuto abituare, in tutto, culturalmente, gastronomicamente, e che forse se ne sarebbe pure andato se non si fosse innamorato. O non avesse avuto l’intuito per capire che qualcosa nella malavita lì in Puglia si stava espandendo: cosche, mattanze, morti.

Cosa l’ha convinta ad accettare questo ruolo?

Il fatto che Fenoglio sia un carabiniere per caso, un letterato, un colto, uno a cui piace la musica classica e che avrebbe voluto fare lo scrittore. Un uomo semplice da quel punto di vista, non un eroe. Un eroe se vogliamo chiamarlo così, lo diventa inconsapevolmente, ma non è il Serpico della situazione che entra con determinazione, vuole sgominare o vuole fare banda. No, è entrato in questo mondo per caso, ma scopre anche lui che questo istinto investigativo, cavolo, ce l’ha. Ha un talento spaventoso, un acume incredibile. Fenoglio gioca a scacchi con la psiche e vuole, ovviamente, fare scacco, senza usare altra arma se non la sua mente. Non porterebbe nemmeno la pistola d’ordinanza, se potesse.

È significativo quindi che la prima scena, il primo arresto, sia un profondo atto di umanità, ma anche che lui appaia estraneo al mondo raccontato.

Assolutamente. Fenoglio considera anche i malavitosi come essere umani, arrivando a ottenere la loro fiducia, ma ha anche il distacco giusto per non essere coinvolto. È come un entomologo che controlla con la lente di ingrandimento o come un chirurgo, che può operare solo se non conosce la persona su cui posa il bisturi. Non ha ricordi in quella città, non il primo bacio né gli amici al bar o il gusto dei piatti della nonna. Ce li hanno però tutti gli altri, la sua squadra, che è la “pancia”. Lui è il cervello. Insieme, pancia e cervello, lavorano per sgominare la banda.

Questo non gli impedisce comunque di essere un personaggio quasi tragico, letterario, in una fiction mainstream di prima serata. O sì?

No, no, è drammatico. Lo è, a sua insaputa. Non è uno che sorride e crede che la simpatia sia anche sopravvalutata. È la sua cultura, il suo metodo. Ma questo rigore, questa ricerca della verità e della lealtà nei confronti del prossimo contagerà tutti quanti. Anche perché, bingo, Fenoglio ottiene risultati. Quindi diventa un leader, a sua insaputa. Alla fine arriva anche a una decisione difficile, ma non posso rivelare di più.

Una decisione che riguarda la “zona grigia” morale di cui scrive spesso Carofiglio? Come l’avete affrontata sul set?

È proprio il fatto più delicato in queste quattro puntate, la zona grigia tra Stato e mafia, ma non posso parlare troppo senza spoilerare, senza che poi si vada a cercare il personaggio coinvolto. Si capirà tutto alla fine. Posso dire però che l’abbiamo affrontata con attenzione, con il sostegno diretto dell’arma dei carabinieri e l’esperienza di Carofiglio.

Nel racconto della Bari de Il metodo Fenoglio rientra anche l’incendio doloso del Teatro Petruzzelli. Come hanno contribuito i suoi ricordi di quell’evento a dare forma anche a ciò che poi avete messo in scena dopo?

Da amante del teatro, per me quello del ’91 è stato un abominio. Ero ancora studente in accademia, ricordo che ne parlammo e quando si scoprì che era doloso, quando trovarono le taniche di benzina per me fu come se avessero distrutto il Michelangelo in Vaticano. È stato uno scempio proprio per la cultura, per Bari, perché anche chi non era mai entrato al Petruzzelli, sapeva che esisteva, che c’era. Ne era orgoglioso, perché era parte di quella città.

Quel gesto feroce fece capire il potere della mafia già allora. Non si fermava davanti a nessuno, come si è visto poco dopo con l’autostrada fatta saltare in aria per uccidere Falcone o mezza piazza distrutta davanti alla casa della madre di Borsellino. Erano quegli anni lì, erano quegli anni lì e non devono essere edulcorati. Grazie alla scrittura, di Carofiglio e degli sceneggiatori, non ne è stato fatto qualcosa “da fiction”, è questa la cosa bella. Non sono quattro episodi fatti per trascorrere una serata serena, sono fatti per lasciare il pubblico accigliato. Sono cose vere, sono successe, perché non le dobbiamo dire? Perché non le dobbiamo raccontare? È memoria storica e la tv di Stato la deve sottolineare. Le altre televisioni possono fare quello che vogliono, ma la Rai ha un dovere.