Silvio Berlusconi showman, piazzista e presidente: una fiction eterna che ha modellato il Paese

Le apparizioni da clown, lo sbarco su TikTok, la nipote di Mubarak: fino all'ultimo il confine tra il comico, il tycoon e il politico è stato estremamente labile. Uno script in continua evoluzione, che supera la fantasia degli sceneggiatori, dove la realtà è un optional e che tra veline e meteorine ha formato la coscienza d'Italia

“Ciao ragazzi! Benvenuti nel mio canale TikTok”. Ancora cercava di conquistare i giovanissimi, l’ultraottantenne Silvio Berlusconi: l’appuntamento era l’ultima convulsa campagna elettorale, quella del 2022. Era pensata e realizzata come uno spot delle televendite quest’epifania berlusconica sul social medium più amato dagli adolescenti: l’ex premier e tycoon televisivo, trucco pesante, che sceglie un tono più da clown che da politico, alla maniera degli animatori da spettacolino per il compleanno dei bimbi. “Il sessanta per cento di voi ha meno di trent’anni, sono un po’ geloso”, flirtava il Cavaliere. Il video si fece subito virale, i follower si moltiplicarono a ritmi formidabili. Gli esperti avvertirono: quelli che l’hanno visto per la maggior parte non sono seguaci politici o elettori, ma persone che vogliono farsi due risate.

Il confine tra comico e politico

Dove esattamente si collochi il confine tra il comico da sketch e l’uomo politico non è mai stato chiaro, nel caso di Silvio. Dire che sia stato (anche, forse soprattutto?) uno uomo di spettacolo è un’ovvietà. Il problema è che lo showman Berlusconi è stato anche leader di partito, presidente del consiglio, candidato (in pectore, ma tant’è) alla presidenza della Repubblica, interlocutore globale di capi di Stato e di governo, mogul televisivo, produttore cinematografico, kingmaker di altri, affacciati alla politica o meno.

“E’ tornato!”, titolarono preoccupati non pochi giornali del resto del mondo qualche anno fa, quando si trovò di nuovo al centro della scena essendo sopravvissuto allo scandalo del bunga bunga, quando ancora una volta si era rialzato, il maestro degli scandali che aveva usato la sua carica per aggirare la giustizia, il politico invotabile a causa di una condanna per evasione fiscale, il magnate delle televisioni al quale viene imputata la devastazione sociale e culturale d’Italia.

Il linguaggio del Gabibbo, e del Paese

Ebbene sì, le “cene eleganti” con soubrette delle sue trasmissioni, la disintegrazione di Forza Italia, il discredito internazionale, tutto dimenticato a più ondate, a dimostrazione che l’icona politica Berlusconi si dimostrava ogni volta più forte del berlusconismo reale. A questo punto è usuale citare Donald Trump come parallelo storico con il Silvio nostrano, quest’ultimo essendo il modello: la chiave di lettura è il populismo mediatico che porta la sua firma e che affonda le sue radici negli anni ottanta, quando sono nati e sono diventati grandi Canale5, Italia1 e Rete4, le tv commerciali.

Da lì in poi, con il suo apice nel primo decennio degli anni duemila, la lingua del Paese, il suo ventre molle, è stata quella dei reality show, degli spettacoli del sabato sera, dei talent game, in ogni momento, in quasi tutti i programmi. Quello è stato il mare magnum del pubblico italiano per due decenni, lo schermo distorto in cui gli italiani si sono riflessi, l’immagine delle veline, delle letterine, delle meteorine, le prime serate da gara tv, una realtà che per un tempo immenso è apparsa essere tutt’uno con la realtà politica del Paese: per anni la televisione italiana, berlusconiana, si è estesa come una nube colorata – tipo quella di New York di questi giorni – dai canali Mediaset alla Rai, pur’essa in quel periodo di appannaggio di Berlusconi in quanto quasi sempre premier, quasi senza soluzione di continuità.

Ritrovavi la logica delle veline, delle letterine, delle girls, ritrovavi l’entusiasmo satrapico degli Emilio Fede davanti alle meteorine dalla risata cristallina, ritrovavi la dinamica psichica dei concorrenti della casa del Grande Fratello e le saggezze del Gabibbo nelle discussioni domestiche, nelle elezioni di Miss Italia, nel confronto con le badanti dei nonni, nelle cronache giudiziarie, nei rotocalchi come “Chi”, vero house organ del berlusconismo nel suo momento di assoluto splendore.

Vendere un prodotto

L’idea fondante, alla fine, è sempre stata quella di vendere un prodotto. Non è un caso che nel 1994 l’allora nascente Forza Italia per costruirsi trovò il suo fondamento in Publitalia, l’agenzia pubblicitaria di Berlusconi (anche qui: un modello, applicato successivamente da Grillo-Casaleggio per mettere in piede la struttura dei Cinquestelle). Il prodotto da piazzare è cambiato di volta in volta: a volte era lo stesso Berlusconi a uso delle urne elettorali, a volte erano le leggi a lui necessarie, a volte i suoi presunti successi al governo, a volte il piano di fuga da uno scandalo. Anche le posizioni politiche sono state sovente un prodotto da piazzare sul mercato: a favore o contro l’Unione europea, strenuo difensore degli Stati Uniti o anche no, ma quasi sempre fedelissimo amico di Vladimir Putin, dove però è il lettone dello zar e più di recente il dono delle casse di vodka a fare da plot twist in uno script in continua evoluzione.

Si è citata molto la serie Succession, in queste ore, parlando di Berlusconi: ma non c’è serie tv che tenga, di fronte al Silvio che fa “cucù” ad Angela Merkel o la fa aspettare mentre telefona con Erdogan, non c’è serie tv che s’immagina lui con in braccio il barboncino o che parla della sessualità delle donne svedesi quando gli chiedono di Greta Thunberg. Va oltre l’immaginario da serie tv il post, seguito all’annuncio della morte dell’ex premier e tycoon, di Karima el Marough alias Ruby Rubacuori, che in quanto all’epoca sospetta accompagnatrice non saputa minorenne gli è costata negli anni una sequela di processi e che lui cercò di far passare contro ogni verosimiglianza come “la nipote di Mubarak”: un cuore rosso spezzato su fondo nero, aggraziato dalla scritta “addio presidente”. Per favore, trovateci lo sceneggiatore capace di questa trovata.

Campagne perfettamente sceneggiate

Idem le campagne elettorali, anch’esse perfettamente sceneggiate, sia pur nel segno dell’iperbole. Strepitosi tagli alle tasse, altrettanto formidabili aumenti delle pensioni, promesse di dentiere per i più anziani, il presidente operaio, vertici epocali con gli altri leader, scenari ultrakitsch, posti di lavoro a milionate. La realtà è un optional, un po’ come accade alle fake news di matrice trumpiana, la messinscena sempre quella di uno spettacolo lussureggiante.

Il fatto è che tutto questo ha una presa formidabile laddove la politica come la conoscevamo è, ormai, una sorta di spettro del passato: in quanti pezzi d’Italia, dalle periferie segnate dalla disoccupazione giovanile ai quartieri residenziali senza un solo bar nel raggio di chilometri, una delle poche forme di coesione sociale è stato, per anni, uno show televisivo di Maria De Filippi, sostituito oggi forse dalla realtà algoritmata dei social? Ed è un cortocircuito formidabile quando il populismo mediatico torna utile a interpretare la pressione fiscale come un fastidio persecutorio mentre il colorato machismo del berlusconismo passa più come una simpatica canagliata che come un’offesa grave. Tutto torna, è la quadratura del cerchio, che anche a Hollywood è la regola aurea.

Il frullato delle notizie

Berlusconi – la serie” è andata avanti fino all’ultimo, mogli amanti e simil-mogli comprese, con annesse le lotte di potere interne a Forza Italia. Come la scenetta per la quale Silvio ricordava commosso d’aver promesso a mamma Rosa di diventare un giorno capo dello Stato. Una promessa che non ha potuto mantenere (non è la prima che sia andata a vuoto), ma che per qualche lunghissimo frangente ha dominato il frullato delle notizie ed è sembrata appartenere al regno del possibile. L’ultima fiction, come quel “ciao ragazzi!” clownesco diffuso via TikTok, l’ultima fictionm della quale il cuore spezzato di Ruby già nipote di Mubarak è l’estremo indizio.