Francesco Vezzoli: “I marmi bianchi? Roba da regime. La mia Roma libera abbraccia Fellini e Bowie”

"Altro che statue congelate in pose austere: la verità è che le opere degli antichi romani erano colorate, irriverenti, raccontavano i piaceri della carne senza limite di età e di genere. E il cinema è il ponte perfetto tra l'arte di duemila anni fa e quella contemporanea". L'intervista di THR Roma al grande artista

Francesco Vezzoli (Brescia, 1971) è uno degli artisti contemporanei più quotati e amati nel mondo. A vent’anni è a Londra, studia alla Central St. Martin’s School of Art, l’istituto da cui sono usciti alcuni degli stilisti iconici del nostro tempo (Alexander McQueen, John Galliano, Stella McCartney). Le sue opere sono state esposte al New Museum of Contemporary Art di New York, Fondazione Prada di Milano, Whitechapel Art Gallery di Londra, la Larry Gagosian Gallery di Beverly Hills e di New York.

Ha partecipato tre volte alla Biennale di Venezia, una di queste con Trailer for a remake of Gore Vidal’s Caligula, finto trailer per un film che non uscirà mai, prodotto da Bob Guccione, proprietario della rivista Penthouse. Eccezionale il cast: Helen Mirren, Adriana Asti, Benicio Del Toro, Milla Jovovich, Courtney Love, Gerard Butler, costumi di Donatella Versace. Ha lavorato con Bianca Jagger, Sharon Stone, Natalie Portman, Lady Gaga. Damien Hirst, Frank Gehry.

Vezzoli è un artista e un intellettuale, un artigiano e un accademico impegnato da anni a far dialogare l’arte contemporanea e quella classica attraverso un linguaggio universalmente comprensibile ma assolutamente originale. Il suo. La sua ultima mostra, fortemente voluta da Miuccia Prada, è ora a Roma, Palazzo delle Esposizioni: si intitola “Vita Dvlcis. Paura e Desiderio nell’impero romano”. Arriva all’appuntamento in “tenuta da lavoro” interamente vestito di nero, shorts e t-shirt, sneakers, sorridente. Ha il piglio il pudore e l’orgoglio di chi vuole mostrarti la sua nuova casa, appena costruita.

Da dove viene questo titolo? Vita Dvlcis?

E’ naturalmente un omaggio a Federico Fellini, La Dolce Vita. Un inchino a Roma, la Grande Madre. Nasce dal bisogno di cambiare punto di vista e quindi approccio con la cultura classica. Senza timore e senza reverenza. Leggerla per quello che è.

In che senso?

Se parliamo di arte classica ci vengono in mente anfiteatri, statue di marmo bianco congelate in pose austere. Ma quella è la visione che ci è rimasta dal Novecento, quando la grande crisi identitaria degli Stati richiedeva di attingere alla storia dei nostri antenati e piegarla ai suoi bisogni di ordine e dominio. I regimi, soprattutto.

Ma la verità è che queste opere erano completamente libere. Erano colorate, irriverenti, rappresentavano momenti di vita quotidiana. Siamo stati noi, nei decenni, ad appesantirle con il significato che volevamo dargli. Ma, diciamocelo, gli antichi romani erano trash. Vivevano vite colme di eccessi. Bevevano vini e mangiavano cibi pesantissimi, assumevano droghe, i loro convivi erano orgiastici. Si dedicavano ai piaceri della carne, al sesso, senza limite di età e di genere. La vita quotidiana era questa: l’evidenza è nelle statue.

Addirittura, trash.

Certo. Quel che ci arriva rappresentava la cultura popolare: i marmi mettevano in scena – appunto – desideri e paure condivisi, comprensibili ai sudditi. Poi però, nei secoli, i regimi se ne sono appropriati piegando quella rappresentazione ai loro bisogni di consenso. La cultura classica è diventata aulica, distante, vagamente minacciosa e dispotica. Candida, normativa.

Ma era tutto colorato e libero, invece. Nel corso della storia c’è stato solo un mezzo in grado di continuare a mostrarla per quello che è stata davvero, senza sudditanza. Il cinema. Il cinema è il ponte perfetto tra due linguaggi apparentemente così lontani: l’arte di duemila anni fa e quella contemporanea. La Dolce Vita di Fellini, certo. Però in questo caso non si racconta la Roma mondana degli anni ’60 ma quella, altrettanto spettacolare, del secondo secolo dopo Cristo, la Vita Dulcis. Vogliamo vederla insieme?

Il manifesto della mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma

Il manifesto della mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma

Andiamo…

Sono sette sale e uno spazio centrale. Ho avuto accesso ai magazzini dei musei romani, una miniera di tesori mai esposti, mai visti. Un privilegio vertiginoso. Ho messo in relazione ogni pezzo scelto con opere di mia proprietà, che avevo acquistato nel corso degli anni e dipinto, decorato. Ho scelto di proiettare in ciascuna stanza diverse clip di film di varie epoche, dai primi del Novecento a oggi, che raccontano con registri diversi quel mondo. Il registro grottesco, quello storico, quello allegorico.

Ecco, qui nella prima sala intitolata “Para Bellum” un torso dell’imperatore Domiziano vestito da Ercole combattente (proviene dal Museo Nazionale Romano) osserva una mia composizione che racconta il mito di Achille e Pentesilea, la regina delle Amazzoni di cui Achille si innamora solo dopo averla uccisa. Di Achille e Patroclo, del loro amore, sappiamo. Ma questo amore postumo per Pentesilea? L’amore per una donna morta. Interessante vero? Solo da morta, è amabile? Sullo sfondo sono proiettati frammenti estratti da La calata dei barbari di Robert Siodmak e da Il gladiatore di Ridley Scott. Siamo quelli di allora, siamo quelli di oggi.

E arriviamo infatti a David Bowie, nella seconda sala.

Qui una testa magnifica dell’imperatore Adriano, che ho dipinto con gli occhi sbarrati e lucenti dell’ossessione d’amore, è di fronte a sei busti di Antinoo decorati con l’iconico trucco-lampo di David Bowie/Ziggy Stardust. Dietro di loro, relegato in un angolo, il busto di Sabina, moglie di Adriano e testimone impotente della fascinazione dell’imperatore per questo giovanissimo ragazzo. Forse dodicenne, al principio. È la prima moltiplicazione dell’oggetto d’amore.

L’imperatore volle che le statue di Antinoo fossero replicate ovunque, nell’impero. E’ la prima testimonianza di quella che oggi chiamiamo viralità dei contenuti. Non esisteva altro che il marmo, allora: non c’erano immagini su schermi, non c’era altro modo di condividere – ma il principio è lo stesso. Voglio che tutti vediate. Oggi noi discutiamo di queerness, di genere. Mettiamo barriere, regole. Generiamo stigma. Duemila anni fa l’amore era quel che era, verso chiunque.

E cosa sono questi piccoli oggetti sotto una piramide di vetro, nella terza sala?

Uteri. Sono uteri che le donne gettavano nel fiume Tevere come ex voto. Per augurarsi una gravidanza o per ringraziare di averla avuta. Ne ho trovati a centinaia, erano in ceste di plastica, a terra, protetti da tettoie di plexiglas. Non avevo mai visto niente di simile, non ne conoscevo l’esistenza.

La vita quotidiana, appunto: il desiderio e la paura. La vita del popolo, delle donne. Il prisma di plexiglas è la citazione di una grande intellettuale femminista contemporanea ma non serve saperlo. Si capisce anche senza. E’ – allora come oggi – il tema della maternità e della sua forza. Chi siamo noi per decidere come e chi possa generare, quale utero sia autorizzato, e da chi? Così come, più avanti, ho trovato bellissime le iscrizioni funebri sulle lapidi di persone comuni. Questo è un servo che andava a comprare abiti per l’imperatore, c’è scritto. Il suo personal shopper, diremmo oggi.

(Vezzoli usa diversi strumenti narrativi, utilizza i reperti archeologici che gli sono stati messi a disposizione come elementi di prova, lega il passato al presente. Storie complesse di persone semplici, gente qualunque, senza tempo. Nella stanza dedicata alla satira le due clip sul fondo sono scene di banchetto e decadenza tratte da Fellini Satyricon e dal Satyricon di Gian Luigi Polidoro, entrambi del ’69, ma è l’allestimento al centro della sala a lasciare di stucco. Una selezione di busti e teste circonda la scultura dell’Ermafrodito dormiente, una scultura della metà del II secolo).

Non è meravigliosa? Guardate il seno, le curve dei fianchi, i genitali maschili, sono sovradimensionati in proporzione al corpo. No, non l’ho fatta io, è una scultura che ha duemila anni. Io mi sono limitato a metterle intorno un cerchio di volti che la guardano. Un coro che ammira. Di donne e uomini, di schiavi e imperatori. Tutto era già qui. Era noto, era evidente. L’abbiamo perduto, dobbiamo ritrovarlo. Di mio, qui, c’è questo coccodrillo che divora una testa arrivata dagli scavi di Palmira, in Siria. E’ un omaggio a Khaled Al Assad, archeologo di fama mondiale assassinato dall’Isis. La furia dell’ideologia criminale, la bellezza dell’arte.

Accarezza il coccodrillo, mentre parla. Un custode si avvicina veloce per impedirgli di toccare l’opera. Esita, certamente riconosce il maestro. Lui stesso istintivamente ritira la mano. Poi la riposa sul bronzo, sorride: “Ah, l’ho fatta io. Posso toccarla”.

“Spero di non avervi annoiati”, si congeda. Sullo schermo corrono le immagini del finto Caligola di Gore Vidal, le massime star di Hollywood che al culmine della loro popolarità hanno voluto partecipare a questo racconto di cosa sia stata la Roma imperiale, di quanto ci parli del mondo di oggi: lo star system, il sesso, il suo commercio, la fluidità di genere, l’amore e il desiderio ad ogni latitudine, senza confini. Antinoo è Ziggy Stardust. E’ tutto semplice, era già tutto noto. Solo, lo abbiamo dimenticato. Serve l’arte a ricordarlo. Finita la visita si resta col desiderio di tornare nella prima sala da capo. Come quando usciti dal cinema si ha l’istinto di rientrare in sala. Il cinema è la guida, la strada maestra. Poi c’è la Roma imperiale, c’è il nostro tempo presente. E’ tutto già detto, è tutto qui.