“Fra poco sentirà una sirena”, avverte subito Jago. “Qui dove lavoro, nei cantieri del Mediterraneo, suonano a ora di pranzo. Una scena apocalittica, ma il pranzo è una questione seria”. Da quando il precedente laboratorio dello scultore – la chiesa di Sant’Aspreno ai Crociferi nel rione Sanità – è diventato il museo dedicato alle sue opere, l’artista si è spostato infatti nella zona del porto di Napoli. All’anagrafe Jacopo Cardillo, Jago individua l’apertura di quel museo tra le tappe fondamentali della sua carriera di artista: “Il senso della mia comunicazione online era avere un rapporto con le persone, capire che dietro ogni interazione c’è un essere umano che ti dedica il tuo tempo”, riflette lo scultore. “Avere un luogo dove poter poi incontrarsi è stata l’evoluzione naturale di quel principio”.
E proprio la condivisione sui social del proprio processo creativo è ciò che ha reso Jago una personalità nota – popolare, si potrebbe dire cercando un termine facile, o forse piuttosto trasversale. Vedere in lui il potenziale di quella trasversalità, racconta Cardillo, è stato il merito di Luigi Pingitore, il regista del documentario a lui dedicato. Dopo una gestazione di quasi quattro anni, Into the white è adesso pronto ad uscire nelle sale. Sarà presentato in anteprima a giugno al Tribeca Festival di New York, e arriverà poi nelle sale italiane il 18 e 19 giugno distribuito da Nexo Digital.
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Jago, se dovesse scrivere un’autobiografia di momenti fondamentali per la sua carriera, quali sceglierebbe?
Sicuramente la mia infanzia. È stata serena, e la mia famiglia ha assecondato la mia creatività che si manifestava nel disegno, nella curiosità, nello sport… ho avuto la libertà di investire il mio tempo in cose che amavo. Poi, le difficoltà che ci sono state – anche economiche – mi hanno messo nella condizione di dover fare delle riflessioni. In primo luogo in funzione della sopravvivenza, in secondo della libertà di poter fare qualcosa che amavo. È il mio filo conduttore, dal me bambino ad oggi: faccio qualcosa perché so che nel fare trovo la mia realizzazione.
Quando ha capito di voler diventare scultore?
Più in là, tra la fine del liceo e l’inizio dell’università, che poi ho abbandonato. Ecco, abbandonare l’università è stato un altro momento importante per la mia carriera, insieme con le prime opere e il tentativo di sostenere il relativo investimento. Anche capire che attraverso la comunicazione social avrei potuto fare quello che amavo è stato fondamentale. Sicuramente, avendo il tempo di pensarci troverei altri momenti-cardine: magari opere che hanno portato più attenzione sul mio lavoro, come il ritratto di Ratzinger… e poi, ad oggi, anche il museo rappresenta un passo importante. È un luogo in cui si passa dalla condivisione virtuale delle opere ad una più fisica.
La locandina di Into the White riporta la famosa definizione del Guardian per descriverla: “Il nuovo Michelangelo”. So che non è d’accordo con il paragone, ma quanto le pesa considerando l’influenza che ha Michelangelo in alcune sue opere?
A quel paragone ho fatto l’abitudine, ormai; faccio finta di niente e spero che sia solo perché parliamo di scultura. È una comparazione sproporzionata, che non sta né in cielo né in terra. Dal punto di vista delle operazioni estetiche, poi, non sono il primo né l’ultimo a scolpire una Pietà. Non credo che Bernini si sia fatto il problema, scolpendo il suo David, che prima di lui l’avesse fatto Michelangelo, e prima di lui Donatello. È un tema, è come se fosse un ingrediente a disposizione. È il modo in cui lo usiamo a fare la differenza – allo stesso modo delle parole, o delle immagini. Certo, puoi sapere che è un ingrediente che è già stato usato, ma allora diventa ancora più preziosa la scelta di usarlo a tua volta: perché non ignora il passato, ma si arricchisce grazie a lui. In fondo, il passato è l’unica scuola che abbiamo. I maestri migliori sono quelli morti, perché non possono rifiutarsi di mettere a disposizione la loro conoscenza.
Rispetto a questo tipo di “ingredienti”, come funziona il suo processo creativo? Parte da un’idea per poi attingere a riferimenti preesistenti, o viceversa?
Mi lascio condizionare da tutto ciò che mi circonda. Quello che è stato fatto lo reputo funzionale a ciò che voglio dire io. Nel caso, per esempio, del mio Figlio velato, tento naturalmente di creare una vicinanza con il Cristo velato di Giuseppe Sanmartino, per raccontare una storia diversa. Attraverso questo accostamento posso trovare il mio modo per affrontare un tema nuovo e arricchirlo di suggestioni, forte di quelle che invece sono già sedimentate nella coscienza collettiva.
Che rapporto ha con la ricezione delle sue opere? Le piace spiegarsi, o preferisce lasciare alla libera interpretazione?
Per me, la cosa preziosa e personale è fare l’opera. Ciò che posso fare nel mio rapporto con gli altri, quindi, è condividere sia l’immagine finita che il dietro le quinte, per farli avvicinare al tipo di emozione che provo io. Le fasi della scultura sono profondamente emozionanti: in questo istante sono davanti a un blocco di marmo da cui emerge una parte della scultura [la David, ndr], e già questo è emozionante. L’opera non è finita di per sé, ma già è completa – è sempre completa a sé stessa. Per avvicinare lo spettatore a questo tipo di sensazione, posso condividere online il processo realizzativo. È un po’ come quando mia nonna faceva le fettuccine mentre stavo seduto a guardarla. Non le facevo io, ma quando poi le mangiavo avevano un sapore diverso da quelle comprate al supermercato: avevano il gusto del processo realizzativo, appunto, in cui avevo visto le mani impastare, avevo sentito l’odore della farina. In questo tipo di condivisione c’è poesia.
Preferisce condividere il making of piuttosto che spiegare l’idea sottesa, insomma.
Quando io sto facendo una cosa, già ne conosco il motivo: se cerco di tradurlo, innesco un tradimento rispetto al significato reale, perché gli devo dare una forma fatta di parole, oltre a quella marmorea. Se evito di spiegarmi, invece, posso dare spazio e voce al punto di vista degli altri. Lasciare questo spazio di manovra è una buona scuola per me.
Com’è nata, allora, l’idea di Into the White, un documentario dedicato a lei?
Mi ha contattato Luigi Pingitore, il regista. Stava girando un trittico di documentari legati a tre artisti, e uno sarei dovuto essere io. Stavo iniziando la Pietà, al tempo; da lì è nata l’idea di raccontare la storia della sua realizzazione.
Il film ha avuto un periodo di gestazione abbastanza lungo, quindi.
Into the White racchiude un lavoro travagliato di tre anni e mezzo, quasi quattro. Luigi è stato una costante durante il percorso, ma figure professionali di ogni tipo sono entrate, uscite, hanno creduto al progetto, l’hanno abbandonato. In realtà, avremmo dovuto fare un film sulla realizzazione di questo film, per quanto è stato complicato portarlo a termine. Mi ha fatto capire che il mondo del cinema è complicato.
Che rapporto ha con il cinema, a proposito?
Meraviglioso. Forse ho qualche lacuna, ma sicuramente mi ha influenzato tantissimo. Mio papà, poi, è architetto e scenografo; da giovanissimo lavorava all’Eur dove Sergio Leone aveva lo studio. Fu ‘cooptato’ nella produzione di C’era una volta in America, ha disegnato tutte le scenografie. Ho ancora le copie scenografiche di molte scene – Chinatown, la fumeria d’oppio…
Tornando a Into the White, cosa l’ha attirata della proposta di Pingitore?
Mi ha colpito che, di solito, un documentario si fa alla fine di una carriera, mentre l’idea di Luigi era di raccontare l’inizio di qualcosa. Farlo al contrario è una scommessa, e la sua è stata effettivamente una scommessa, in cui non sono stato altro che uno strumento. Questo documentario è più che altro la storia di un regista che ha creduto in qualcosa che poteva essere tutto o niente, investendo il suo tempo e la sua visione, dando fiducia a ciò che aveva davanti agli occhi. È facile farlo al contrario, con un personaggio famoso. Ma Jago, chi è? Che gliene frega alla gente della vita di Jago, di ciò che fa?
E com’è stato fare parte di questo progetto?
Mi ha aiutato a capirmi meglio. Un conto è sapere chi sei, un conto è vedere un film che ti racconta. Ti capisci meglio, ti vedi attraverso gli occhi di un’altra persona. E poi, sono contento rispetto a ciò che l’esistenza di questo film racconta di Luigi, che ha trovato riconoscimento, ma solo fuori dall’Italia. Abbiamo provato diversi festival prima di essere selezionati a New York, per il Tribeca Festival. Lì è stato accolto con entusiasmo, e la trovo una cosa stupenda.
Sa già chi sarà con lei alla prima del Tribeca?
Sicuramente saremo io, Luigi, Tommaso Zijno, che è il mio project manager, e Michela Ruggieri, che oltre a essere general manager sarà presto anche mia moglie. Tutto in famiglia, ma a parte questo non ho molte risposte [ride, ndr]. So che ci sarà anche Whoopi Goldberg, che è una luce di questa contemporaneità… non molto altro. Non sono bravo con le serate di gala, sono molto meno impacciato sulle impalcature.
Il suo autoritratto è destinato a essere distrutto, la sua Pietà è incompleta e in un punto è particolarmente fragile, come sottolineano le guide nel suo museo. Quanto è importante per lei la temporaneità – o potenziale temporaneità – delle sue opere? Sembra quasi un’antitesi, rispetto al fatto che lavora col marmo.
Il marmo ha questa immagine poetica di materiale nobile, resistente. Non c’è niente di vero in questo, anche se vogliamo convincerci che le cose siano eterne e vivere con la presunzione di immortalità. È per questo che, ri-lavorando le statue e magari modificandole, per me è interessante chiedersi quando un’opera sia davvero finita. Per me non lo è mai, anche perché il tempo stesso, la quotidianità, le occasioni espositive partecipano al suo cambiare. Un monumento è mai finito? Ci sono le intemperie, le cacate di piccione sopra, le persone lo toccano, gli lanciano addosso la vernice… sono soggette al tempo anche loro, non sono eterne. E questo è un valore, perché ci ricorda di goderne.
A proposito di vernice, il vandalismo sulle opere d’arte è un modo di partecipare all’opera, secondo lei?
Parlare di “vandalismo” già è sintomatico, ma non ho una risposta definitiva. A volte le azioni, nella storia, assumono significati diversi. Ciò che oggi può sembrare un gesto contro la legge un domani potrebbe essere il gesto più motivazionale mai fatto [ride, ndr]. Chiaramente, ci sarà sempre un limite a ciò che si può fare, ma c’è anche sempre una storia dietro ogni gesto. Viviamo in un mondo che dà voce solo a chi conviene, quindi gli altri cercheranno sempre di fare sentire la propria, in modi più o meno giusti.
E rispetto agli interventi del pubblico sulle sue opere, come si pone?
Nel mio caso, le mie statue si sono arricchite di quello che le persone hanno prodotto con la loro partecipazione. A volte, ne hanno condizionato la storia e mi hanno aiutato a capire meglio le opere stesse: veder prendere, alzare, buttare e distruggere una statua che avevo installato su ponte Sant’Angelo [Il profugo, ndr] mi ha fatto capire che dovevo re-intervenire su di lei, e oggi è mille volte più potente.
Ho conosciuto i ragazzi che l’hanno maltrattata, avevano fatto anche un video su TikTok. Chiunque l’abbia visto, specialmente in politica, ha “condannato” il gesto, ma personalmente non me la sono sentita di condannarli. Da ragazzino ero molto peggio di loro [ride, ndr]. Li ho conosciuti, sono ragazzi normali. Il fatto, secondo me, è che con la comunicazione si può portare un esempio, ma quell’esempio può anche essere strumentalizzato. Perché, in realtà, c’è bisogno che qualcuno distrugga un’opera, per poter dire: “Vedi? Quelle cose non si fanno”. Se non c’è il delinquente, come fa chi vuole dimostrare di essere una persona a posto?
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