La corsa (a ostacoli) verso gli Oscar, la sfida di Matteo Garrone e la Babele delle lingue

L'Italia candida Io, capitano agli Academy Awards. Ma la concorrenza è molto agguerrita, e si potrebbe rivelare come la più multiculturale di sempre: la pellicola inglese è tutta in tedesco, il Giappone si presenta con un film di Wenders, quello francese è diretto da un vietnamita

La domanda secca che gli addetti ai lavori si sentono rivolgere oggi (da amici, colleghi, appassionati, semplici curiosi) è: Matteo Garrone può farcela? Io, capitano, che l’Italia ha selezionato come candidato all’Oscar per il miglior film internazionale, può vincere? O almeno entrare in cinquina, cosa che ai film italiani non riesce molto spesso (l’ultimo è stato È stata la mano di Dio di Sorrentino nel 2022, ma prima siano andati molte volte in bianco)?

La risposta è altrettanto secca: boh! Dipende da molte cose, forse troppe. Che il film sia bello, e abbia un tema forte, non è in discussione. Ma la corsa a questo specifico Oscar è estremamente complessa e deve tener conto, in primis, della concorrenza.

Francofoni o no?

Quasi tutti i paesi più importanti hanno indicato in questi giorni i propri film candidati. Buon ultima la Francia, oggi, 21 settembre: molti si attendevano Anatomie d’une chute di Justine Triet, Palma d’oro a Cannes, e invece l’onore tocca a La passion de Dodin Bouffant di Tran Anh Hung, film “culinario” ambientato nella Belle Epoque e magnificamente interpretato da Juliette Binoche e Benoit Magime. Nei giorni scorsi era girata un’indiscrezione (a nostro parere del tutto insensata) secondo la quale la Francia avrebbe potuto candidare il nuovo film di Woody Allen, Coupe de chance, visto a Venezia.

In teoria era possibile: il film è francofono, è girato a Parigi ed è una produzione francese. Ma candidando Woody Allen, che a Hollywood è “persona non grata” per gli assurdi motivi che ben conosciamo, la Francia si sarebbe fatta un clamoroso autogol. Aggiungiamo che Woody, quando vinse l’Oscar per Io e Annie, manco si presentò a riceverlo perché doveva suonare il clarinetto a New York! Con questa nuova Academy ossessionata dal politicamente corretto, non avrebbe preso nemmeno un voto.

La passion de Dodin Bouffant è la storia di un grande cuoco e della sua affezionata lavorante, che in realtà (rivendicazione giustamente femminista) cucina molto meglio di lui. Sapendo del successo del quale godono programmi tv e libri sulla cucina, e avendo presente quanto gli americani pensino (sbagliando) che la cucina francese sia la migliore del mondo, è un concorrente pericoloso. È un film così francese che più francese non si può, ma diretto da un vietnamita (Tran Ahn Hung, per altro da tempo residente in Francia).

La statuette meticce

Non è l’unica anomalia di questo tipo: anzi, questo Oscar 2024 è all’insegna del meticciato. Curiosamente ma non troppo, è parlato completamente in tedesco il film che rappresenta la Gran Bretagna! Si tratta di The Zone of Interest di Jonathan Glazer, anch’esso premiato a Cannes: si ispira a un romanzo di Martin Amis e racconta la vita quotidiana dei carnefici nazisti che lavoravano ad Auschwitz.

Ma non bisogna stupirsi più di tanto: siccome la caratteristica dirimente per iscriversi a questo particolare Oscar è che il film NON sia parlato in inglese, solitamente i film britannici concorrono agli Oscar “normali” (e spesso li vincono); per candidarsi in questa categoria è necessario che un film sia parlato in un’altra lingua, non importa quale.

Una scena da Perfect Days di Wim Wenders

Una scena da Perfect Days di Wim Wenders

Vale anche, per altri versi, per Io, capitano: è un film italiano in cui l’unica battuta nella nostra lingua è il titolo, gridato dal protagonista nel finale: per il resto tutti parlano wolof o francese, e quindi è comunque papabile. Il Giappone ha candidato Perfect Days il cui regista è il tedesco Wim Wenders. La Germania invece corre con Das Lehrerzimmer che è diretto da Ilker Çatak, regista tedesco di etnia turca. E così via.

Non è un premio secondario

Ma tutto questo rientra nel regolamento. Il film “internazionale” dev’essere indicato dai vari paesi e non deve essere parlato in inglese. Fino al 2019 infatti il premio era denominato “best foreign language film”, miglior film in lingua straniera (un piccolo ricordo: è il motivo per cui l’Italia nel 2004 non potè candidare Private, l’opera prima di Saverio Costanzo). Da quattro anni invece si chiama “Academy Award for Best International Feature Film”.

L’elenco dei film già ufficialmente candidati è lungo, e comprende film di cinematografie poco note (Armenia, Bhutan, Estonia, Indonesia…) che probabilmente non avranno grandi chances. Ma forse vale la pena di ricordare come funziona, questo premio. È da sempre un premio non “secondario”, ma comunque “collaterale” rispetto agli Oscar veri e propri. Sappiamo bene che per gli altri Oscar le votazioni avvengono prima per categoria (gli scenografi votano per gli scenografi, i montatori per i montatori, e così via): poi, una volta definite le cinquine, tutti i membri dell’Academy (circa 10.000 persone) votano per tutti i premi.

Oscar, una rosa di 15 titoli

Il film internazionale ha un regolamento diverso. I titoli candidati vengono visti da un ristretto “International Feature Film Preliminary Committee”, che li riduce a una rosa di 15 titoli. Un altro comitato, definito “International Feature Film Nominating Committee”, li porta poi a cinque.  Il regolamento dell’Academy afferma che “final voting for the International Feature Film award shall be restricted to active and life Academy members who have viewed all five nominated films”.

Insomma, non votano tutti: votano membri “attivi e viventi” (e meno male!) che “abbiano visti tutti e cinque i film”. È una definizione un po’ bizantina per far capire che la votazione, alla fin fine, è ristretta, il che significa due cose. La prima: che ci vuole fortuna, bisognerebbe capire chi sono i votanti effettivi, ma su questo l’Academy è super riservata. La seconda: il premio, diciamolo, vale quello che vale (ma vallo poi a dire a chi vince!).

Quali possono essere i concorrenti più temibili per Io, capitano? Sicuramente il film francese, qualunque esso sia, per la potenza di quella cinematografia (che però, curiosamente, non vince dal 1992, quando si impose il non eccelso Indochine di Regis Wargnier; e la Francia è seconda nella classifica dei paesi vincitori, con 12 vittorie, preceduta… dall’Italia, con 14!). Aggiungiamo, basandoci sui film visti, il citato Perfect Days di Wenders, il romeno Do Not Expect Too Much From the End of the World di Radu Jude, il turco About Dry Grasses di Nuri Bilge Ceylan e il nostro film del cuore, Fallen Leaves di Aki Kaurismäki al quale assegneremmo l’Oscar d’ufficio (Matteo Garrone non si offenda). Ma quel genio di Kaurismäki non perde occasione per dire che Hollywood gli fa schifo e temiamo abbia ben poche possibilità.

Una scena da Fallen Leaves di Aki Kaurismaki

Una scena da Fallen Leaves di Aki Kaurismaki

Attenzione invece al tunisino Quattro figlie, diretto dalla regista Kaouther Ben Hania, per vari motivi: la tematica femminile, il mix fra documentario e finzione, l’appello alla libertà religiosa e civile, l’apprezzamento ricevuto a Cannes.

I cocktail di Los Angeles

Tutti questi discorsi sono scritti sull’acqua senza adeguati investimenti. È l’ultimo fattore che analizziamo, ma è il più importante. Concorrere all’Oscar costa. Rai Cinema, che è il principale produttore di Io, capitano, dovrà investire parecchio. Ricordiamo sempre che quando Benigni vinse (anche come attore) con La vita è bella passò mesi a Los Angeles, stringendo mani e facendo conoscenza con tutta la Hollywood che contava. Bisogna stare sul posto, fare lavoro di lobby (nel senso lecito del termine, si capisce), organizzare proiezioni mirate, dare feste, farsi vedere. A Los Angeles ci sono professionisti che si mettono a disposizione delle produzioni straniere per fare lavoro di marketing a tappeto, e si fanno pagare molto bene. Questo è il lavoro che Matteo Garrone e i suoi stanno già sicuramente cominciando a organizzare.

L’idea che basti avere tra le mani “un bel film” non è sufficiente, anzi, è garanzia di sconfitta. Il film andrà venduto anche “politicamente”, e in questo si parte bene: il problema dell’immigrazione è molto sentito anche in California e la comunità di Hollywood, assai cosmopolita, è storicamente liberal su questi temi.

C’è molto lavoro da fare. In bocca al lupo.