Silent Night – Il silenzio della vendetta, Joel Kinnaman e la “paura di fallire in un film senza dialoghi”

Il protagonista del film di John Woo racconta la costruzione del suo personaggio in un film d'azione e vendetta in cui è abolito l'uso della parola: una sfida personale e stilistica per regista e attore

Sulla carta, la sfida di Silent Night – Il silenzio della vendetta sembrerebbe insormontabile per la maggior parte degli attori, ma Joel Kinnaman ha sempre cercato di fare più con meno. L’attore svedese è consapevole che la macchina da presa è in grado di captare i pensieri di una persona e quindi cerca di ridurre le battute ogni volta che se ne presenta l’occasione. Il primo film americano di John Woo in vent’anni si dimostra la versione più estrema di questo esercizio: Kinnaman interpreta Brian Godlock, un padre in lutto che non si ferma davanti a nulla pur di sgominare la banda responsabile dell’uccisione del figlio (e del suo forzato silenzio).

Considerando la premessa rischiosa, Kinnaman era abbastanza in ansia all’idea di affrontare il progetto, che è stato accolto con favore dalla critica. All’inizio di quest’anno, Kinnaman ha recitato anche nel thriller Sympathy for the Devil accanto a Nicholas Cage, che recentemente incontrato di nuovo al Red Sea International Film Festival in Arabia Saudita.

Un paio di anni fa ha ricevuto una sceneggiatura intitolata Silent Night di John Woo: quando ha scoperto che non c’erano dialoghi, qual è stato il rapporto tra emozione e paura?

Direi che il rapporto tra emozione e paura è stato 80-20%, perché è qualcosa che, se sbagli, può diventare davvero una merda, una parodia noiosa. Ma è molto bello poter fare un esperimento cinematografico, qualcosa di artisticamente coraggioso. È un sogno e l’abbiamo fatto con un regista leggendario. Quindi sì, direi 80-20, anche perché l’elemento della paura mi aiuta a motivarmi e a darmi una spinta.

Tra i suoi ruoli precedenti, ce n’è stato uno che prevedeva un lavoro non verbale tale da farla sentire in grado di farlo per un intero film?

Ho sempre avuto questa inclinazione. Quando ero un giovane attore, la gente chiedeva sempre a gran voce di avere più battute, perché le persone che parlano di più sono considerate le più significative, ma io cercavo sempre di liberarmi delle mie battute. Se riuscivo a trasmettere una cosa senza dirla, era più interessante. Quando un attore più anziano mi ha detto questa cosa, mi è rimasta impressa e ho iniziato a notarla guardando i film. Quindi, se si riesce a trasmettere la stessa cosa senza dire nulla, è un modo migliore per raccontare la storia. È più sottile e il pubblico può in un certo senso raccontarsi la storia da solo. Serve a rendere il pubblico un co-creatore, e far percepire meglio il dialogo interiore.

All’inizio ha provato a seguire il method acting non parlando affatto per un paio di mesi e, anche se non ha funzionato, ha preso in considerazione l’idea perché era da solo per la maggior parte del film?

Sì, il method acting è esagerato, ma in un certo senso stimola l’immaginazione della gente. In realtà, ho cercato di seguire questo tipo di processo rimanendo concentrato sul personaggio, come se stessi continuamente provando. Se lo fai per un intero film, allora passi più tempo con il personaggio, che con altre persone reali, il che ha un valore. Ma io sono molto attivo sul set e contribuisco attivamente, con le mie idee e quelle che raccolgo dagli altri membri del team. Amo il processo creativo collettivo che è il cinema, e se sei isolato nel tuo processo e rimani sempre nel personaggio, allora perdi tutto questo. E perdi il contributo di tutti gli altri artisti che sono sul set. Se qualcosa non va nella giusta direzione e il tono di una scena inizia a cambiare, devi essere in grado di comunicarlo.

Nonostante l’assenza di dialoghi, ha dovuto fare molto Adr (automatic dialogue replacement, ndr) per i rumori, i respiri o altro?

Sì. È stata una delle sessioni di Adr più emotive che abbia mai fatto. C’erano molte scene caratterizzate dal lutto e Godlock, il mio personaggio, continuava a emettere suoni anche se non riusciva a parlare. Quindi alcune scene di dolore intenso hanno dovuto essere ricreate o aggiunte in Adr.

Per metà del film Brian è in lutto e in addestramento, mentre la maggior parte dei film di vendetta taglierebbe i ponti per arrivare prima all’azione. È contento di essersi invece guadagnato l’azione dal punto di vista del personaggio?

Sì, ho pensato che fosse una chiave importante per distinguere questo film. È un viaggio molto intenso quello che lui intraprende, quindi è molto importante che il pubblico percepisca di essere con lui in questo viaggio. Dal punto di vista cinematografico, questo è l’aspetto che più interessava a John. Si trattava di rappresentare le scene drammatiche e di raccontare la storia senza dialoghi, utilizzando poi flashback e montaggi per mostrare il passare del tempo. Ha progettato davvero delle bellissime inquadrature per raccontare la storia.

John mi ha spiegato come abbia ridimensionato il suo stile d’azione per essere più realistico e incentrato sui personaggi, ed è buffo perché l’azione di questo film è comunque folle per la maggior parte degli standard. Lei ha percepito che si stava contenendo un po’?

Sì, molte cose non erano inventate il giorno stesso, e tutta la troupe era coinvolta nella definizione del tono dell’azione. Insieme al coordinatore degli stunt, Jeremy Marinas abbiamo costruito l’idea di come volevamo che l’azione e i combattimenti apparissero e si percepissero, soprattutto considerando che Brian non era uno specialista. Non ha molte competenze, a parte le poche abilità casalinghe che ha imparato allenandosi in garage. Quindi l’idea era di renderlo frenetico, disordinato e intenso, e John Who era molto d’accordo. Fortunatamente ha voluto girare l’azione in modo più moderno: riprese più lunghe e un po’ più ampie con meno tagli. Questa è un’opportunità che il regista ha quando l’attore fa la maggior parte del lavoro degli stunt. È possibile soffermarsi sulle inquadrature molto più a lungo.

Quest’anno ha lavorato anche in Sympathy for the Devil, come è stato trovarsi sul set con Nicholas Cage?

In realtà ero a caccia di qualcosa da fare con Nic. Abbiamo lo stesso agente, e stavo tormentando Andrew Finkelstein per trovare qualcosa. Non sono solo un fan di Nic Cage, sono anche affascinato dal coraggio con cui interpreta i suoi personaggi. Non è interessato al naturalismo e alla sottigliezza, che è quello che tutti cercano. Lui punta alle grandi scelte e alla follia, ed è fantastico vedere qualcuno che osa fare qualcosa di diverso più e più volte. Quando si guarda un filmato di tutti i suoi lavori, è unico, inimitabile. Io invece cerco sempre la scelta più sottile. Cerco di trovare un modo per far sì che un personaggio si fonda con me e faccia quanto basta per raccontare la storia. Certo, cambio il linguaggio del corpo e la cadenza dei personaggi, ma cerco sempre la sottigliezza. Nic non lo fa.

Quindi, quando si lavora come Nic, si rischia di sbagliare qua e là, ma quando si azzecca qualcosa come fa spesso lui, si ottengono questi personaggi geniali che passano alla storia. Non ha deluso in Sympathy for the Devil. Il primo giorno di prove a Las Vegas ho bussato alla sua porta e quando ha aperto aveva i capelli rosa e urlava perché il suo gatto era scappato per la terza volta. Aveva già trascorso innumerevoli ore a lavorare sulla sceneggiatura per arrivare al punto di conoscerla a memoria già il primo giorno. È un artista unico, ed è per questo che mi sono sentito in dovere di passare un mese in macchina con lui, assorbendo il suo genio e la sua follia.

Avete mai parlato di John Woo?

Ne abbiamo parlato! È stato divertente.

Traduzione di Pietro Cecioni