Quando il cinema è ancora in grado di raccontare la guerra: il D-Day di Steven Spielberg e la “misura dell’uomo sull’uomo”

Il 6 giugno 1944, 80 anni fa, con una delle più grandi operazioni anfibie della storia, lo sbarco in Normandia segnava l’inizio della liberazione dell’Europa continentale dall'abisso nazifascista. Dopo Il giorno più lungo del 1962, nel 1998 lo raccontò Salvate il soldato Ryan dal punto di vista di otto fanti, "in missione per uno solo”. È il triste, tragico e affascinante destino dei "war movies": raccontare la brutalità cristallizzandola in un'opera d'arte

La pioggia, le onde alte e la nausea dei soldati, forse per il mal di mare o forse per l’idea di dover continuare a uccidere: è l’attimo di apparente quiete prima della lunghissima e straziante sequenza di apertura di Salvate il soldato Ryan. Venti minuti che rovesciano qualsiasi immagine trionfante dello sbarco in Normandia così come raccontato nei libri di storia. Perché fu, sì, una strategia vincente, ma a un prezzo inimmaginabile per gli uomini che l’hanno vissuta e resa possibile, sembra dire Steven Spielberg nel suo film del 1998.

È l’alba sulla spiaggia di Omaha, uno dei cinque punti nel nord della Francia in cui il 6 giugno 1944 ha inizio l’operazione Neptune, oggi ricordata appunto solo come sbarco in Normandia o, più semplicemente D-Day, il giorno dei giorni. Omaha, insieme e Utah, è il piccolo fazzoletto di terra e sabbia che la fanteria degli Stati Uniti ha il compito di conquistare per creare un passaggio e proseguire nell’entroterra.

Il giorno più lungo

I soldati ammassati sulle scialuppe di sbarco, con quei loro elmi tondi che li trasformano in birilli pronti a cadere, ricordano d’un tratto quelli di Il giorno più lungo. Le inquadrature sono così simili, almeno all’inizio, che non può non trattarsi di un omaggio di Spielberg all’epico film del 1962.

Una regia collettiva (Ken Annakin, Bernhard Wicki, Andrew Marton, Darryl F. Zanuck, Gerd Oswald) poco meno di vent’anni dallo sbarco in Normandia sceglie infatti di ricreare l’evento coinvolgendo oltre quaranta divi dell’epoca (da John Wayne e Robert Mitchum a Henry Fonda e Sean Connery) e diversi protagonisti reali del D-Day di diversa provenienza, che accettano di inscenarlo per Hollywood. Prendendo in prestito un’espressione di quegli anni, Il giorno più lungo era tuttavia un “cinema verità”, un falso documentario in cui il pathos era meno rilevante della rappresentazione storica, militare e strategica tratta dall’omonimo saggio Cornelius Ryan (1959), giornalista che aveva intervistato soldati di entrambi i fronti per ricostruire l’intera operazione Neptune.

Una scena di Il giorno più lungo (1962), film sullo sbarco in Normandia

Una scena di Il giorno più lungo (1962), film sullo sbarco in Normandia

Solo quegli elmi, perciò, piccoli e tondi se guardati da lontano, sembrano collegare davvero i due film. Perché mentre in Il giorno più lungo il campo si fa lungo, e lo spazio dell’inquadratura si fa largo, estendendosi alla forza distruttrice della guerra, in Salvate il soldato Ryan lo sguardo si stringe agli uomini fino a cercarne il respiro e le lacrime.

C’è chi prega Dio di guidare i suoi proiettili, chi si affida al sangue freddo dei chirurghi da campo, chi cade senza riuscire nemmeno ad accorgersi del proprio corpo crivellato e mutilato e chi ha la sfortuna di sentirsi morire fra i dolori più atroci. Il saggio, razionale e coraggioso capitano John Miller, interpretato da Tom Hanks, guida i sopravvissuti verso una faticosa e per niente scontata vittoria che si riflette poi in una speculare scena finale, anche più tragica.

Il dilemma dell’eroe

L’orrore della guerra, di qualsiasi guerra, è tutto in questi primi venti minuti di finzione, eppure non è servito 26 anni fa e non serve nemmeno oggi, che lo stesso orrore passa attraverso i nostri smartphone, senza la mediazione della quarta parete. Non serve perché non costringe a rifiutare la violenza che mostra, al contrario spinge a cercarne una razionalizzazione, un’accettazione all’interno delle regole del racconto e del viaggio dell’eroe. È il triste e affascinante destino dei war movies che diventano capolavori della storia del cinema: raccontano la brutalità umana cristallizzandola in opera d’arte.

In Salvate il soldato Ryan è fin troppo facile individuare questo meccanismo eroico. Otto dei migliori uomini del 2° Battaglione Ranger, capitano Miller compreso, accettano (non tutti di buon grado) l’ordine di cercare e riportare a casa James Ryan (Matt Damon), ultimo superstite di quattro fratelli soldati. Ryan non comparirà che nell’ultima ora di film, rifiutandosi di lasciare i compagni prima della battaglia decisiva. Prova che l’intera missione riflette solo la visione di chi dà ordini lontano dal fronte, ma che ha bisogno di creare simboli, come in questo caso lo Stato maggiore tanto misericordioso da riportare a una madre almeno un corpo da riabbracciare e non quattro da seppellire. Solo il sentimentalismo, in senso buono, di Spielberg è riuscito a intravedere la grandezza della storia impedendo che diventasse un atto di propaganda. Perché nessun film di guerra cade mai nel vuoto politico, culturale o sociale.

War movies e contesti storici

Se si vuole guardare Salvate il soldato Ryan all’interno di una prospettiva più ampia, comunque, può sempre servire ricordare che alla fine degli anni Novanta, durante la presidenza Clinton, gli Stati Uniti erano ancora coinvolti nei conflitti sul territorio europeo. Un film che li ricordasse come i liberatori del vecchio continente, alla fine della Guerra Fredda, era forse più che necessario. Soprattutto perché nel 1995 gli Usa avevano bombardato la Bosnia e nel 1999 furono protagonisti della guerra in Kosovo. Dopodiché è iniziata la lunga battaglia con Al Qaeda in Afghanistan e Sudan.

Così, anche molti grandi film di guerra immediatamente successivi, soprattutto nei primi anni Duemila, non hanno mai potuto dimenticare cosa è stato e cosa ha significato l’attacco al World Trade Center dell’11 settembre 2001. Sono serviti sette anni, ad esempio, prima che un film come il premio Oscar The Hurt Locker di Kathryn Bigelow potesse vedere la luce.

Matthew Modine in una scena di Full Metal Jacket di Stanley Kubrick (1987)

Matthew Modine in una scena di Full Metal Jacket di Stanley Kubrick (1987)

Ancora diverso è il discorso per i film contro la Guerra in Vietnam, la cui matrice antibellica è stato soprattutto una forma di opposizione al pensiero politico e culturale dominante. Non a caso i film citati ancora oggi sono tutte opere di grandi autori, da Il cacciatore di Michael Cimino ad Apocalypse Now di Francis Ford Coppola. Senza dimenticare, ovviamente, il più grande di tutti, Stanley Kubrick, che ha rivisitato spesso il genere dei war movies e ha raccontato le guerre del Novecento in modo diverso, attraverso almeno tre dei suoi capolavori: Paura e desiderio (1953), il suo esordio alla regia, Orizzonti di gloria (1957) e Full Metal Jacket (1987). Ma anche con la satira politica di Il dottor Stranamore (1964), viaggio realista-surreale all’ombra della Bomba.

È forse nella rappresentazione umanamente tragica e senza pietà che ne fa, di volta in volta, Kubrick che il film di guerra raggiunge le sue vette, senza piegarsi al bisogno di giustificarsi.

Se si accettano, infatti, le parole che in Salvate il soldato Ryan il caporale Upham rivolge al capitano Miller, allora “la guerra educa i sensi” e “porta gli uomini in una collisione così lesta e ravvicinata nei momenti critici, che l’uomo misura l’uomo”. Quindi a ogni conflitto dovrebbe corrispondere una morale. Ma se, invece, dovesse aver ragione Kubrick, imbraccia il fucile anche chi indossa le spille della pace. E non resta che un cupo e alienato finale sulla Marcia di Topolino, sulle parole del soldato Joker: “I’m in a world of shit. Yes. But I’m alive (Mi trovo in un mondo di merda, sì, ma sono vivo”.