Maestro, i tre figli di Leonard Bernstein raccontano le loro emozioni sul film e il rapporto con Bradley Cooper

Da Martin Scorsese a Steven Spielberg che volevano fare il film alla tenuta di famiglia che diventa un set, passando per le incredibili somiglianze tra il regista e protagonista e il loro genitore così ingombrante, gli eredi del grande direttore d'orchestra aprono il loro cuore e i loro ricordi a The Hollywood Reporter Roma. E Maestro, su Netflix dal 20 dicembre 2023 (e applauditissimo alla Mostra di Venezia), vissuto e visto dai loro occhi è ancora più speciale

Tre continenti, una stanza virtuale che si affaccia su quattro salotti. L’intervista più bella che si possa fare su Maestro comincia così: tre fratelli e un amico, che è come se lo fosse. Si conoscono da almeno quattro decenni. Quest’ultimo è un regista, Franco Amurri. Suoi Il ragazzo del pony express con Jerry Calà, il cult Da Grande di cui Big con Tom Hanks è chiaramente il remake, anche se mai reso ufficiale: per 24 anni ha vissuto e lavorato negli Stati Uniti ed è stato il primo cineasta italiano che ha visto finanziate due sue opere, Flashback e Monkey Trouble, interamente da major USA). Loro sono Jamie, Alexander e Nina Bernstein.

Loro sono i figli (non d’arte, ma del grande amore con la madre Felicia, attrice amatissima da loro e dal suo pubblico) del genio Leonard, sopraffino artista che ha fatto la storia come direttore d’orchestra, pianista e compositore, l’uomo che nella stessa vita ha creato West Side Story, la colonna sonora di Fronte del porto (nominata all’Oscar), ha eseguito meglio di chiunque altro la Rapsodia in blu di Gershwin e composto Messa, tuttora uno dei temi, dei racconti musicali più vibranti della storia. Celebre per le sue performance live frementi, ora è diventato il fulcro di un film straordinario, Maestro, diretto e interpretato e ecoprodotto da Bradley Cooper.

The Hollywood Reporter Roma li incontra in quella che è anche l’opportunità di quattro vecchi amici di ritrovarsi e l’intervistatore spia questa intimità, dolce e divertita. Si parte da loro tre, nella Sala Grande di Venezia, che dirigono la standing ovation roboante dopo la proiezione ufficiale, con un’ironica e liberatoria imitazione dello stile atipico e vibrante di direzione d’orchestra del padre. “Sì – dicono all’unisono – è stato catartico in un momento in cui gioia e commozione, ricordi e dolore andavano insieme. Ci ha salvato il senso dell’umorismo, siamo tornati bambini. E poi dovevamo riempire di qualcosa quei sette minuti di applausi! Abbiamo solo replicato ciò che accadeva quando in tv c’era l’ouverture del Candide, guardare nostro padre e imitarlo in salotto”.

Jamie Bernstein, Alexander Bernstein e Nina Bernstein Simmon

Maestro – (L to R) Jamie Bernstein, Alexander Bernstein and Nina Bernstein Simmon

“Lì ci sono loro, il senso dell’umorismo di Jamie, Alexander e Nina – interviene Amurri – che è quello di Leonard, loro sono la vera legacy umana di Bernstein, hanno così tanto di lui”.

Lo senti dalla prima battuta di Nina. “Stai registrando il video? Accidenti, a saperlo venivo vestita elegante”. Li dividono migliaia di chilometri e oceani, ma sembrano gli stessi raccontati in Maestro sui prati della tenuta di famiglia nel Connecticut. Spiritosi, uniti, incredibilmente in sintonia. Una piccola orchestra.

“Lo sai – svela Alexander – che hanno girato lì?”. “Per noi è stato strano, rivederci e rivederli dove abbiamo passato tanti momenti nostri. Momenti felici” gli fanno eco le sorelle. “Ricordo ancora quando ci vedevamo là e loro venivano già truccati e vestiti di scena, per entrare nel personaggio. Giravano per il giardino, per le stanze e a noi sembrava insieme strano e naturale. Venivano lui e Carey (Mulligan) e abbiamo visto in diretta che straordinari attori siano, che chimica pazzesca ci fosse tra loro”.

Parlano finendo le frasi l’uno dell’altro, a proposito di chimica. Si fa fatica a interromperli. E devi leggere i loro occhi, le loro espressioni per intravedere le emozioni dietro i sorrisi caldi, la nostalgia dietro l’entusiasmo per un’opera che ha restituito loro una memoria dolce, la misura e l’equilibrio con cui parlano della loro famiglia.

“Nina ed io – continua Alexander -, lo abbiamo incontrato per primi, Bradley. Jamie era in viaggio, aveva visto A star is Born e ci ha detto solo ‘guardatelo’. Siamo caduti dalla sedia, eravamo davvero impressionati e colpiti dal suo lavoro. E quando ce lo siamo trovati davanti, era come ce lo immaginavamo dopo aver visto il suo esordio alla regia: concentrato, attento, impegnato e pieno di generosità”. “E rispettoso – aggiunge Nina -, ci ha conquistato il suo approccio. Quando anche Jamie lo ha visto e sono entrati in sintonia è stato un crescendo e con naturalezza lui ci ha incluso nel lavoro, ha fatto in modo che ci arrivassero, senza dire nulla, tutte le bozze della sceneggiatura e poi ci ha fatto vedere l’opera in proiezione in vari stadi del progetto”.

Un film che trascura i capolavori del padre – West Side Story viene appena citato e come qualcosa che Leonard considera sopravvalutato perché Bernstein come Morricone si percepiva troppo pop rispetto ai suoi studi, al suo talento e alle sue ambizioni – e anche la parte più politica, quella che gli faceva sostenere le Pantere Nere con party vip e che ispirò Tom Wolfe nell’inventare l’espressione “radical chic”. Cooper ha privilegiato una sinfonia e corrispondenza d’amorosi e musicali sensi tra il direttore d’orchestra e l’uomo appassionato, tra il Leonard in pedana e quello in famiglia, entrambi scossi da passioni e da vicende more than life.

Ed è struggente e meraviglioso – “la recensione di The Hollywood Reporter Roma – dicono i tre – ha capito il film, è una lettera d’amore come quella di Cooper” – come riesce a raccontare un matrimonio in cui genio e identità confliggono, in cui il talento è miele per chi ascolta Bernstein, ma veleno per lui, perennemente insoddisfatto. E sempre irrimediabilmente incompleto, lui omosessuale ma anche marito e padre felice, apparente contraddizione che il regista e l’attore racconta con poesia, empatia e impietosa bellezza. “Ci ha fatto un sacco di domande – racconta Nina – e noi abbiamo cercato di non fare troppe correzioni, alla verità abbiamo preferito una fedeltà dello spirito di papà, dell’atmosfera di quegli anni”. “È vero – sottolinea Jamie – abbiamo voluto rispettare le sue licenze artistiche e abbiamo fatto bene. Tra noi c’era una bella atmosfera di fiducia reciproca”.

Ovviamente, alcuni momenti non sono stati facili. “Non ce l’avremmo fatta a non crollare guardandolo – confessa Alexander – se lo avessimo visto finito, a Venezia, tutto intero. Quello che ci sembrava difficile, ovvero vederlo più volte, a pezzi, è stato provvidenziale. Ci ha aiutati a metabolizzare i sentimenti profondi e violenti che molte immagini e parole del film suscitano in noi”.

“La parte più difficile, ovviamente, è stata quando nostra madre si ammala e poi muore. Avevamo letto la sceneggiatura, sapevamo che sarebbe stato presente nel film, ma vederlo è stato davvero come un pugno nello stomaco, anche se Bradley ha trattato tutto con una delicatezza meravigliosa. Nel girarlo, nel raccontarlo, anche e soprattutto nel proporcelo: se lo avessimo visto tutto insieme, in un’anteprima, ci avrebbe distrutto, saremmo andati in pezzi”.

Nessun rimpianto per ciò che poteva essere e non è stato. Lo afferma con sicurezza Alexander. “Sono 15 anni che provano a fare questo film. In origine fu Martin Scorsese, continuava a rinnovare l’opzione ma non si decideva. In produzione c’erano già Fred Berner e Amy Durning. Noi eravamo d’accordo, ci faceva piacere, abbiamo solo chiesto di poter leggere la sceneggiatura, parlare con chi lo avrebbe fatto. Quando tutto sembrava chiuso, quando l’opera sembrava impossibile da portare sullo schermo, ecco il colpo di scena: Steven Spielberg, ben prima del suo West Side Story, entra nella compagine produttiva e sembra possa andare anche dietro la macchina da presa. Arriva da lui l’idea di Bradley come protagonista. E quest’ultimo più si coinvolgeva nel progetto, più parlava con noi, più sentiva che la storia era sua. E a un certo punto ci è sembrato naturale quando ci ha chiesto di dirigerlo, quando si è proposto come regista”.

“L’accelerazione finale ci ha sorpreso – afferma Jamie -, a un certo punto era diventato un gioco, uno scherzo tra noi questo discorso dei diritti, delle opzioni, ci eravamo rassegnati al fatto che il film alla fine non si sarebbe fatto”.

E invece Maestro, alla fine, è proprio un inno al genio, all’uomo, ai suoi talenti e alle sue imperfezioni, ma anche a una famiglia unica e imprevedibile e speciale com’era quel padre e marito così ingombrante e irrinunciabile. “La loro preparazione come attori – raccontano Jamie e Nina – era così profonda che alla fine è stato un modo intuitivo di stare insieme il loro, così come l’uso del corpo, così vicino a quelli di nostra madre e nostro padre. Si sono aiutati con i tanti video, non mancavano di certo, ma anche con ciò che di magico avevano creato loro stessi. Quando erano qui a Fairfield abbiamo capito che dovevamo lasciarlo fare. Lasciarli fare. E loro hanno assorbito quella natura, quella casa, quegli anni. Avevano un metodo nel lavorare e nel contaminarsi con l’ambiente, ma c’era pure qualcosa di genuino e spontaneo in loro”.

“Ricordo una cosa di quando giravano – interviene Alexander -, che chissà perché Carey si bloccava quando veniva urlato ‘azione!’ e capito questo, Bradley, quando erano tutti pronti, semplicemente girava la macchina da presa verso di lei, verso la scena. E lui, che abbiamo frequentato a lungo, era pazzesco. Dopo il ciak si trasformava, la voce non era più quella di Brad ma di Lenny, è stato così bravo che l’abbiamo anche perdonato per aver dovuto traslocare, visto che la tenuta l’hanno messa sottosopra!”.

Bradley Cooper e Carey Mulligan (nella parte della moglie di Bernstein, Felicia Montealegre) sul set di Maestro, nella vera tenuta dei Bernstein, Fairfield nel Connecticut

Bradley Cooper e Carey Mulligan sul set di Maestro, nella vera tenuta dei Bernstein, Fairfield nel Connecticut

Vedere di nuovo vivi, nel corpo di altri, i genitori. Ritrovare i tempi andati, i più felici, nella propria casa. Una prova meravigliosa ma anche terribile. “L’emozione più folle – raccontano insieme -, anzi la parola giusta è surreale. Come se fosse un sogno. I nostri genitori erano di nuovo lì, anche se non lo erano. È stato come alla prima quando ci hanno fotografato con Bradley e Carey. Ci siamo guardati e ci siamo detti ‘ecco, questa è una ben strana foto di famiglia, con i nostri genitori più giovani di noi!’. E poi c’è un’altra cosa”.

Probabilmente la più importante.

“Non so – prosegue Alexander – se vedendo il film ho imparato qualcosa di più della nostra famiglia o di Lenny Bernstein. Ma so che ho imparato molto di Bradley Cooper e non è figlio della suggestione, ora siamo tutti e tre abbastanza lontani da tutto per dire che lui e papà si assomigliano tanto. Molto più di quanto potessimo immaginare: intensità, concentrazione, perfezionismo, la capacità di dedicarsi devotamente all’arte 24 ore su 24 se necessario. Saper reggere la tensione meglio di chiunque altro, non dormire per giorni quando l’ispirazione arrivava. E il carisma. E l’amore”.

Si fermano. Si sorridono come se fossero nella stessa stanza. E quasi in coro dicono “E l’abbracciare. Abbracciano nello stesso modo. Sono entrambi pieni di amore, di voglia di conoscere, di legare, di calore”.

Sembra di vederli lì, Lenny e Brad, sorridersi. In questo momento quasi privato è inevitabile chiedere a questi figli devoti e obiettivi quanto sia difficile essere figli di un genio. Maestro ci dice che prova e sfida e atto d’amore sia stato esserne la moglie. Ma esserne gli eredi? “È tremendamente difficile – ammettono candidamente -, perché hai aspettative su te stesso che non riuscirai mai a soddisfare. E poi Jamie ricorda sempre un libro per bambini che avevamo in casa. Nella copertina c’era scritto Proprio come la mamma. Nella quarta di copertina, che poi era un’altra cover, rovesciata, Proprio come il papà. Lei preparava la colazione, rassettava la casa, aiutava tutti, lui aveva la sua valigetta, prendeva il treno e faceva tutto il resto che gli stereotipi di allora prevedevano. Ecco, noi lo leggevamo e ridevamo per l’incredibile lontananza di quell’immaginario dalla nostra famiglia. Noi sapevamo che neanche per un solo giorno saremmo stati come in quel libro. Ci sembrava la vita più bella che si potesse immaginare, allo stesso tempo già sapevamo di essere dentro qualcosa di unico”.

Come Maestro, come Leonard Bernstein, come queste due donne e un uomo che hanno convissuto con la grandezza e l’hanno portata dentro e se ne sono presi cura diventando persone così carismatiche, difendendo la loro normalità dalla grandezza dei genitori, ma senza escluderla dalle loro vite, anzi. E mentre li saluti vorresti, almeno una volta nella vita, essere invitato a Fairfield e passare il pomeriggio a sfogliare album di famiglia e ascoltare racconti.

Ma il tempo è finito e proprio Lenny Bernstein ha insegnato che l’armonia, la misura sono fondamentali perché le cose siano perfette. C’è il tempo per un sorriso sardonico sulla protesi del naso di Bradley Cooper e la polemica sul politicamente scorretto di quel trucco prostetico, talmente assurda “da non meritare altre parole oltre la dichiarazione che abbiamo già rilasciato”.