Gli Streamer chiedono al governo meno obblighi di investimento per le produzioni italiane

In commissione cultura le piattaforme hanno fatto pressione per far rivedere le regolamentazioni riguardo ai prodotti locali: "Il quadro normativo italiano ha creato un sistema farraginoso che non avuto gli effetti positivi attesi”. Ma in Francia, per dire, sono tenute a investire nelle produzioni locali ed europee pari al 20-25% dei ricavi

Meno obblighi di investimento e meno regolamentazione, e ci rimettono i produttori indipendenti. Gli Streamer, tra cui Netflix, Prime Video, Paramount, Disney+ e Warner Bros. Discovery, sono indaffarati nel lobbying, e hanno chiesto al governo guidato da Giorgia Meloni, nel corso dei lavori di martedì 23 gennaio della commissione cultura e trasporti di Montecitorio, di rivedere una serie di regolamentazioni che, a detta loro, “disincentivano” l’investimento per produzioni audiovisive in Italia.

Secondo i big dello streaming, infatti, gli obblighi di investimento in prodotti locali sono troppo alti. Gli Streamer sono infatti obbligati dalla legge europea a investire una percentuale dei loro ricavi in produzioni europee indipendenti e recenti, cioè realizzate negli ultimi cinque anni. Nel Tusma, che è il testo unico dell’audiovisivo in Italia, nonché implementazione della legge europea di cui sopra, è stabilito che i fornitori di servizi di streaming debbano investire il 20% dei loro ricavi (12,5% nel caso di Broadcaster), in prodotti indipendenti italiani.

La richiesta degli Streamer

“Rispetto al resto d’Europa, solo Francia e Italia hanno obblighi molto alti, e il quadro normativo è più complesso”, dichiara una portavoce durante la commissione. “Siamo qui a chiedervi di valutare una riduzione significativa delle entità degli obblighi. Rimuovendo riferimento temporale a opere recenti. E in generale alleggerendo e semplificando il sistema”. Anche quello sanzionatorio, secondo loro, è “sproporzionato”.

In Francia, le piattaforme hanno obblighi di investimento in produzioni locali ed europee pari al 20-25% dei loro ricavi. “La direttiva europea di cui il Tusma è la trasposizione, non obbliga gli stati membri all’obbligo di quote”, continuano gli Streamer. “Tanto è vero che la maggior parte degli stati membri non ha adottato nessun obbligo, oppure ne ha adottati di più bassi”.

Stando a quanto affermano le corporation, il quadro normativo italiano ha creato un “sistema rigido e farraginoso che non ha prodotto gli effetti positivi attesi sul settore”. “In realtà le principali conseguenze economiche sono un effetto inflattivo dei costi di produzione, che sono molto cresciuti per questo motivo, e che si traducono in un sovraccarico sui fondi pubblici che vanno alle produzioni attraverso il tax credit”.

Nel corso dell’audizione, i rappresentanti hanno citato uno studio dell’Osservatorio Europeo dell’Audiovisivo, che mostra come gli investimenti degli Streamer sono più alti nel Regno Unito (dove non esiste nessun obbligo) e Spagna (5%). Ma nell’analisi del 2022, al terzo posto, c’è la Francia che ha regolamenti simili all’Italia, poi Germania (che non ha obblighi di investimento) e, infine, il Bel Paese.

Il governo diviso

Il governo Meloni, però, sembra diviso sul tema. Fratelli d’Italia e il ministro della cultura Gennaro Sangiuliano – riporta Il Fatto Quotidiano – spingono per mantenere la quota di investimenti al 20% per tutelare la “cultura nazionale”, mentre la Lega tende la mano alle piattaforme, proponendo un abbassamento della quota al 15%. Per FdI, la quota aumenterebbe al 25% nel 2025.

Al centro della discussione c’è l’imminente riforma del Tusma, una riforma che – secondo quanto riportato da Domani – danneggerebbe i produttori indipendenti. Secondo un testo preapprovato dal consiglio dei ministri, – e confermato dagli stessi Streamer durante la commissione – il nuovo Tusma prevede uno “sfrondamento di alcune possibili limitazioni contrattuali e ulteriori regolamentazioni”.