“Era un sit-in pacifico, e siamo stati arrestati”. Sunnyvale, California, nel cuore pulsante della Silicon Valley, il 16 aprile un gruppo di dipendenti ha organizzato una protesta davanti e dentro gli uffici di Google. I lavoratori hanno occupato l’ufficio del Ceo di Google Cloud Thomas Kurian, con striscioni in cui chiedono all’amministratore delegato indiano-americano di interrompere Project Nimbus.
Cheyne Anderson, che fa parte del gruppo No Tech For Apartheid, era tra quei lavoratori che stavano manifestando contro il progetto di cloud computing realizzato da Google e Amazon per il governo israeliano. L’accordo – che secondo il San Francisco Chronicle vale circa 1,2 miliardi di dollari – comprenderebbe anche servizi di intelligenza artificiale e machine learning per l’esercito. I lavoratori del colosso sostengono che questi strumenti sono utilizzati contro la popolazione palestinese.
Anderson, che vive a Washington ed è volato in California per partecipare al sit-in, racconta a The Hollywood Reporter Roma che la risposta di Google alle manifestazioni è stata molto dura. “Sono furioso, non tanto per il mio licenziamento o per l’arresto, un po’ lo avevo messo in conto”, spiega l’ex programmatore.
“Ma l’azienda ha licenziato 50 persone, e solo una decina di noi ha occupato gli uffici – aggiunge Anderson – Molte di queste persone erano solo presenti alle proteste fuori, alcuni distribuivano volantini. Non hanno ricevuto chiamate dalle risorse umane, niente. Sembra una punizione collettiva”. In un comunicato, No Tech For Apartheid ha definito i licenziamenti “illegali”.
Da metà aprile, inoltre, sono scoppiate all’interno dei campus universitari statunitensi una serie di proteste pro-Palestina, che hanno portato anche all’arresto di alcuni manifestanti. Al momento, come riporta il The Guardian, gli atenei coinvolti sono la Columbia University di New York e la University of California di Los Angeles, tra gli altri.
Il sit-in dei dipendenti Google
Bandiere della Palestina, striscioni con scritto “Stop fueling genocide” e cartelli di videocamere di sorveglianza con il logo della big tech di Mountain View: le proteste dei lavoratori non erano circoscritte solo in quel di Sunnyvale, ma sono avvenute anche alla sede di New York e di Seattle.
Firmato nel 2021, Project Nimbus ha attirato le critiche dei dipendenti di Google e Amazon, che hanno fondato nello stesso anno il movimento No Tech For Apartheid. E il caso è tornato di prima importanza dopo l’attacco delle milizie di Hamas del 7 ottobre, causando 1134 morti e 200 ostaggi, e con la risposta militare di Israele, che secondo dati di Al Jazeera ma anche secondo altre fonti indipendenti – ha causato la morte di più di 34mila palestinesi a Gaza.
“Sono stato in custodia due ore, mi hanno preso impronte e foto”, continua l’ex dipendente Google, che dopo il sit-in della scorsa settimana ha ricevuto notizia del suo licenziamento assieme ad altri colleghi, circa 50. “Durante la manifestazione, uno di noi ha lasciato brevemente la stanza in cui eravamo per prendere degli snack, e in quel momento le guardie di sicurezza di Google hanno tentato di separarci, hanno cercato di chiudere le porte. Alla fine è riuscito a rientrare, si è messo a correre mentre la sicurezza ha cercato di placcarlo”.
“Eravamo lì da diverse ore, era chiaro che avevano deciso di farci fare il sit-in”, aggiunge Anderson. “Ma la sicurezza di Google non mette le mani addosso ai dipendenti a meno di casi violenti, e uscire fuori a prendere degli snack non mi pare violento”.
Sorveglianza, IA e Apartheid
Il movimento No Tech For Apartheid, che chiede lo smantellamento di Project Nimbus, da anni cerca di incalzare la dirigenza sia di Amazon sia di Google al fine di abbandonare la collaborazione con il governo e l’esercito israeliano. Il gruppo, alla luce dei licenziamenti, ha dichiarato di essere in contatto con Alphabet Workers Union, il sindacato dei dipendenti di Alphabet, la società madre che possiede il famoso motore di ricerca, poiché parte delle persone coinvolte fa parte del sindacato.
“La popolazione palestinese in Cisgiordania e Gaza vive sotto un’occupazione militare brutale”, afferma a THR Roma un dipendente di Amazon di origine palestinese, che ha chiesto di rimanere anonimo per paura di ripercussioni. “E la sorveglianza è una delle parti più importanti per Israele, al fine di mantenere l’occupazione e l’apartheid”. “Fornendo servizi cloud a Israele, i palestinesi sono soggetti a una sorveglianza e raccolta dati, e l’aspetto più spaventoso è l’utilizzo di intelligenza artificiale da parte dell’esercito”.
La fonte fa riferimento a Lavender, un sistema di IA scoperto da un’inchiesta di 972 Magazine e Local Call, che userebbe l’intelligenza artificiale per generare i bersagli dei bombardamenti nella Striscia di Gaza. “È imperativo che Amazon e Google smettano di fornire tecnologia che viene usata per crimini di guerra”.
Project Nimbus, dal Cloud alla Palestina
Il sistema di Project Nimbus, spiega la fonte, è strutturata in quattro stadi: costruzione dell’infrastruttura cloud, definire la politica governativa per lo spostamento delle operazioni nel cloud, spostare le operazioni nel cloud, e infine implementare e ottimizzare le operazioni nel cloud.
Con infrastruttura cloud, in informatica, si intende un sistema di computer e server che ospitano dati e potenza di calcolo per i beneficiari. La fonte inoltre spiega che all’interno del contratto firmato da Israele, Google e Amazon, c’è una clausola che impedisce alle due big tech di ritirarsi dal fornire i servizi. Per cui, ammette, che dal punto di vista legale è complesso interrompere il servizio di Project Nimbus.
E mentre i due colossi tecnologici non hanno risposto ai loro dipendenti dopo tanti dubbi e domande, la tensione tra dirigenza e lavoratori aumenta dopo i recenti licenziamenti a Google.
“Chiediamo a Google e Amazon di ascoltare i propri dipendenti e di interrompere le operazioni con l’esercito e il governo israeliano, così come con altri governi che commettono violazioni dei diritti umani”, aggiunge la fonte. “I lavoratori tech non realizzano tecnologia per opprimere le persone, ma per unirle. Fino a quando i palestinesi non sono liberi e al sicuro, queste aziende non devono fare affari con Israele”.
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