I cento passi è la storia vera di Peppino Impastato, ma è soprattutto il film che ha formato, senza se e senza ma, l’ideale dell’antimafia in una generazione che da preadolescente aveva visto morire i suoi eroi, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, spazzati via da autobombe vili e infami il 23 maggio e il 19 luglio del 1992.
Quando Marco Tullio Giordana – che delle morti e dei misteri iconici del nostro paese ha fatto una poetica, almeno di parte della sua carriera (gli anni di piombo, l’Heysel, la Repubblica Sociale, Pasolini, Peppino Impastato, le stragi di stato, Lea Garofalo, Yara Gambirasio) – ha deciso di raccontare la storia del giovane speaker radiofonico e attivista Peppino Impastato, ha fatto tornare in via un eroe di cui quei giovani orfani, a ridosso di Genova 2001, avevano disperatamente bisogno.
Decide nel lontano 2000 di affidare la storia di quel ragazzo di Cinisi, Giuseppe Impastato – che in una scena epica porta il fratello Giovanni (Paolo Briguglia) a contare i passi (cento) che separano casa loro da quella di uno dei boss più feroci e potenti della mafia siciliana, Tano Badalamenti – a Luigi Lo Cascio, che poi sarà tra i protagonisti del grande successo del regista, tre anni dopo, La meglio gioventù. Attore al suo esordio al cinema – aveva recitato a lungo in teatro dopo essersi diplomato come allievo del mitico Orazio Costa (stessa classe di Fabrizio Gifuni) alla Silvio D’Amico nel 1992 -, fu segnalato da Luigi Maria Burruano, suo zio, a Marco Tullio Giordana.
Per lui arriverà un David di Donatello e l’inizio di una carriera clamorosa sul grande schermo, che lo vede tuttora sulla cresta dell’onda. Ma quell’interpretazione rimane una delle sue più belle, potenti, commoventi, capace come è stato di incarnare il coraggio e il carisma, la fragilità e la dolcezza, la forza e l’indignazione di un ragazzo idealista siciliano che usò comizi, carta stampata e la radio per ricoprire di ridicolo la mafia.
Combatterla mostrandone i lati grotteschi. Troppo per chi fonda il proprio potere sulla paura altrui.
Marco Tullio Giordana, come mai prima e probabilmente neanche dopo, trovò un linguaggio originalissimo e meravigliosamente doloroso (anche grazie alla presenza tra i suoi cosceneggiatori, di Claudio Fava, figlio di Pippo, anch’esso ucciso dalla mafia), consegnando al nostro pantheon un eroe la cui grandezza era stata offuscata dall’aver condiviso il giorno della morte con Aldo Moro.
La storia vera de I cento passi
Giuseppe Impastato, detto Peppino, nasce a Cinisi il 5 gennaio del 1948. La famiglia incarna perfettamente ciò che sarà il suo breve viaggio terreno: il padre, mafioso, fu mandato al confino dai fascisti per effetto delle decisioni del prefetto Mori, mentre lo zio, Cesare Manzella fu più fortunato nel diventare il boss di riferimento di zona, meno sull’aver trovato la morte causa esplosione di un’Alfa Giulietta piena di tritolo, non casuale (l’esplosione, non l’auto) nel 1963.
La madre, Felicia Bartolotta, tentò invano di evitare il matrimonio con Luigi nel momento in cui scoprì i suoi rapporti con la criminalità organizzata. Giuseppe, il figlio con cui condivide il cognome e null’altro, cresce così – come Lea Garofalo, altra ragazza raccontata da Marco Tullio Giordana in un film orgoglioso e struggente – in una famiglia, società, città impregnata di mafia. E decide di combatterla.
Il padre lo caccia di casa, lui nel 1965 aderisce al Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria dopo aver fondato il giornalino L’idea socialista, su cui l’anno dopo pubblicò l’articolo rimasto nella storia per la sua frase simbolo, “La mafia è una montagna di merda”, che costituirà il suo manifesto ideale e politico contro Cosa Nostra.
Il suo attivismo proseguirà poi anche su Il manifesto e Lotta continua, come giornali e come formazioni politiche. Contadini espropriati per costruire un pezzo di aeroporto, edili e disoccupati ebbero lui un leader, un sindacalista indefesso negli anni.
Nel 1976 costituì il gruppo Musica e cultura, che svolgeva attività culturali (cineforum, musica, teatro, dibattiti, ecc.); nel 1977 fondò Radio Aut, radio libera, autofinanziata, con cui denunciò i crimini e gli affari dei mafiosi di Cinisi e Terrasini, in primo luogo di Gaetano Badalamenti (chiamato sarcasticamente «Tano Seduto» da Peppino), successore di suo zio Cesare Manzella come capomafia locale, che aveva un ruolo di primo piano nei traffici internazionali di droga, attraverso il controllo dell’aeroporto di Punta Raisi.
Il programma più seguito era Onda pazza, trasmissione satirica in cui Peppino derideva mafiosi e politici.
Nel 1977 muore il padre, nel 1978 pur minacciato da molti esponenti, anche non criminali, della sua comunità, Peppino Impastato si presenta alle elezioni comunali per Democrazia Proletaria, ma non fa in tempo a sapere i risultati. Tra l’8 e il 9 maggio viene ucciso su mandato di Tano Badalamenti, con un grosso sasso, poi il corpo viene messo sulle rotaie della linea ferroviaria Palermo-Trapani con sotto del tritolo.
Inizia subito un’attività di discredito della sua reputazione, tra chi sostiene che fosse causato l’omicidio da “fatti di donne”, chi sosteneva che stesse mettendo in atto un attentato poi fallito e ritortosi contro di lui, chi parlava di storie di droga.
La comunità capisce subito quanto invece ci fosse sotto e va a votarlo in massa, simbolicamente, e sarà il candidato con più preferenze: al suo posto, subentrerà Antonino La Fata. Peppino diventa un martire, a soli 30 anni, entrando nel cuore di tutti i ragazzi che sognano di cambiare il mondo come avverrà, anche grazie al cinema, a Giancarlo Siani (ricordate Fortapasc?). Due ragazzi ossessionati dalla giustizia e dalla verità.
Dal desiderio di un mondo diverso e possibile, dall’obbligo morale di combatterlo per realizzarlo.
Le frasi più belle del film e la canzone simbolo del film in onda oggi su Rai1 alle 23.35
Ci sono molte frasi di quel film – e di Impastato – rimaste nella memoria collettiva. Alcune verranno ricordate nello speciale sulle mafie e sulle loro vittime di Porta a Porta a cui seguirà la programmazione in seconda serata del capolavoro di Marco Tullio Giordana.
“Sei andato a scuola, sai contare?”
“Come contare?”
“‘Come contare’, uno, due, tre, quattro. Sai contare?”
“Sì, so contare”
“E sai camminare?”
“So camminà”
“E contare e camminare, insieme, lo sai fare?”
“Sì, penso di sì…”
“Allora forza. Conta e cammina. Dai. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto…”
“Dove stiamo andando?”
“Forza, conta e cammina! ottantanove, novanta, novantuno, novantadue”
“Peppino…”
“Novantatré, novantaquattro, novantacinque, novantasei, novantasette, novantotto, novantanove e cento! Lo sai chi c’abita qua?”
“Ammuninne”
“Ah, u’zu Tanu c’abita qua! Cento passi ci sono da casa nostra, cento passi! Vivi nella stessa strada, prendi il caffè nello stesso bar, alla fine ti sembrano come te! «Salutiamo zu’ Tanu!» «I miei ossequi, Peppino. I miei ossequi, Giovanni». E invece sono loro i padroni di Cinisi! E mio padre, Luigi Impastato, gli lecca il culo come tutti gli altri! Non è antico, è solo un mafioso, uno dei tanti!”
“È nostro padre”.
“Mio padre, la mia famiglia, il mio paese! Io voglio fottermene! Io voglio dire che la mafia è una montagna di merda! Io voglio urlare che mio padre è un leccaculo! Noi ci dobbiamo ribellare. Prima che sia troppo tardi! Prima di abituarci alle loro facce! Prima di non accorgerci più di niente!”
“La mafia uccide, il silenzio pure”
“Invece della lotta politica, la coscienza di classe, tutte le manifestazioni e ste fesserie bisognerebbe ricordare alla gente cos’è la bellezza, aiutare a riconoscerla a difenderla”
“Stamattina Peppino avrebbe dovuto tenere il comizio conclusivo della sua campagna elettorale. Non ci sarà nessun comizio e non ci saranno più altre trasmissioni. Peppino non c’è più, è morto, si è “suicidato”. No, non sorprendetevi perché le cose sono andate veramente così. Lo dicono i carabinieri, il magistrato lo dice. Dice che hanno trovato un biglietto: “Voglio abbandonare la politica e la vita”.
Ecco questa sarebbe la prova del “suicidio”, la dimostrazione. E lui per abbandonare la politica e la vita che cosa fa? Se ne va alla ferrovia, comincia a sbattersi la testa contro un sasso, comincia a sporcare di sangue tutto intorno, poi si fascia il corpo con il tritolo e salta in aria sui binari. “Suicidio”.
Come l’anarchico Pinelli, che vola dalle finestre della questura di Milano. Oppure come l’editore Feltrinelli, che salta in aria sui tralicci dell’Enel. Tutti “suicidi”. Questo leggerete domani sui giornali, questo vedrete alla televisione. Anzi non leggerete proprio niente, perché domani stampa e televisione si occuperanno di un caso molto importante. Il ritrovamento a Roma dell’onorevole Aldo Moro, ammazzato come un cane dalle brigate rosse.
E questa è una notizia che naturalmente fa impallidire tutto il resto. Per cui chi se ne frega del piccolo siciliano di provincia? Ma chi se ne fotte di questo Peppino Impastato? Adesso fate una cosa: spegnetela questa radio, voltatevi pure dall’altra parte, tanto si sa come vanno a finire queste cose, si sa che niente può cambiare. Voi avete dalla vostra la forza del buonsenso, quello che non aveva Peppino.
Domani ci saranno i funerali: voi non andateci, lasciamolo solo. E diciamolo una volta per tutte che noi siciliani la mafia la vogliamo. Ma non perché ci fa paura: perché ci dà sicurezza, perché ci identifica, perché ci piace! Noi siamo la mafia! E tu Peppino non sei stato altro che un povero illuso! Tu sei stato un ingenuo, sei stato un nuddu miscato cu’ niente!”.
E ora fate partire questa canzone, chiudete gli occhi e sorridete pensando a Peppino Impastato. Perché a volte si può essere orgogliosi di essere italiani. Perché a volte urlare e cantare, contare e camminare, si può fare. Si deve.
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