Non siamo signore, ma tante per cui la guerra non è mai finita. Storia del mansplaining nella musica italiana

Il mercato musicale - stando a fonti teoricamente affidabili come le principali classifiche di streaming e vendite - è ancora occupato perlopiù da uomini (nella classifica Spotify del 2023, i dieci artisti più ascoltati sono maschi). Prendete il festival di Saremo 2024, dove la percentuale maschile era di 21 su 30 cantanti in gara. Da Minuetto a Quello che le donne non dicono, tutte le volte in cui gli uomini hanno tentato di spiegare il punto di vista femminile

Era il 1973, e un’ancora poco nota Mia Martini intonava le note di Minuetto, il malinconico inno di una donna fragile, evidentemente prevaricata e incapace di distaccarsi da quello che oggi, cinquant’anni dopo definiremmo un amore tossico. “Troppe volte vorrei dirti “no”. E poi ti vedo e tanta forza non ce l’ho. Il mio cuore si ribella a te, ma il mio corpo no, Le mani tue, strumenti su di me, Che dirigi da maestro esperto quale sei”, canta col suo inconfondibile graffiato. Una semplice presa di coscienza autonoma della propria mancanza di polso. Piccolo problema, il testo del brano non fu scritto dalla stessa Martini, ma da Franco Califano, che volle proprio la cantante per interpretare quello che definì “lo sfogo di una donna, schiava di una relazione che ormai è insoddisfacente ma che non riesce a chiudere”.

Sette anni dopo, agli albori degli anni Ottanta, l’esordiente Viola Valentino esce con Comprami, scritta da Renato Brioschi e Cristiano Minellono. Migliaia di italiani cantano e ascoltano in radio: “Comprami, io sono in vendita. E non mi credere irraggiungibile”, storia di una donna che si offre ad un uomo senza pretese. La canzone all’epoca scaturì l’ira delle femministe nel pieno delle loro contestazioni contro ogni sfruttamento del corpo femminile. Ora – grazie a Dio – rivendichiamo la sacrosanta libertà di concedersi a chiunque, quando come si vuole. Se non fosse che a sancire questa libertà, a metterla per iscritto, ancora una volta, siano stati due maschi.

Viola Valentino

Viola Valentino

Appunto. La parola mansplaining, una tra le ultime entrate nell’enciclopedia Treccani, è un neologismo inglese che deriva dalla crasi di man e explaining (uomo e spiegare). È un vocabolo particolarmente calzante, intraducibile in italiano, che sta a indicare “L’atteggiamento paternalistico con il quale certi uomini pretendono di rappresentare e spiegare alle donne il loro stesso punto di vista e ciò che è lecito o non è lecito che le donne facciano”.

È insomma una sotto-categoria del comportamento maschilista, che – benché una limitata schiera di persone sostenga il contrario – continua a compromettere il nostro presente. E come ogni limitazione, come ogni (mancato) fenomeno sociale, intacca inevitabilmente anche l’arte. In questo senso, la musica si fa detentrice di una logica patriarcale e androcentrica da anni.

Storia di un’industria a preminenza maschile

Ma partiamo dall’inizio. Se fino agli anni Sessanta le donne erano (quasi) sempre e solo interpreti e mai compositrici dirette, con le lotte femministe e l’evoluzione del mercato – e grazie all’imprescindibile contributo internazionale di sguardi e voci illuminate come quelle di Joni Mitchell, Patti Smith o Joan Baez – pian piano la resistenza si fa più cedevole, e il panorama italiano si rende più libero, aperto ed eterogeneo. Il cantautorato nazionale, però, nella sua epoca aurea degli anni Sessanta e Settanta – quello composto dagli impeccabili Dalla, De André, De Gregori, Battisti, Tenco e Lauzi – rimane un terreno insondato dai talenti femminili. Che esistono, sia chiaro. Ma la loro voce è sempre in disparte rispetto a quella dei colleghi uomini, nettamente più numerosi. Allora come ora.

Perché in fondo sarebbe ipocrita gridare ad una effettiva rivoluzione, anche oggi. Il mercato musicale – si prendano come fonti affidabili le principali classifiche di streaming e vendite – è ancora occupato perlopiù da uomini (nella classifica italiana Spotify del 2023, i dieci artisti più ascoltati sono maschi, e la percentuale di ascolto di brani di donne è solo del 15% sul totale). La musica un tempo definita leggera non sembra ancora pronta a dare alla componente femminile (per quanto riduttivo sia definirla così) uno spazio adeguato.

Prendete quello che è considerato il primo fenomeno italiano per quanto riguarda la musica leggera: il festival di Sanremo. La vincitrice della 74esima edizione, Angelina Mango è la prima donna a conquistare l’Ariston dal 2014, seguita da varie colleghe campionesse di ascolti e vendite, come Annalisa, Emma e Rose Villain. Tuttavia, quelle (orribilmente) definite “quote femminili”, lasciano spazio a tutto meno che ad una vera speranza di cambiamento. Su trenta concorrenti alla kermesse di quest’anno, ventuno erano uomini. I dati parlano da sé.

Annalisa

Annalisa

Ma se la carenza di voci femminili in radio e nel panorama mainstream è un problema piuttosto concreto, la causa è altrettanto evidente. Basta andare a scavare poco più a fondo tra le playlist di qualche decade fa. Le voci femminili potenti e promettenti, nel panorama italiano, ci sono sempre state. E c’è sempre stata, ora come allora, la tendenza prevalente maschile a scrivere per loro. A far loro interpretare testi a volte moraleggianti, didattici, tentativi di interpretazione (ovviamente figlia di una prospettiva maschile) dell’amore, della vita e del rapporto di coppia. Che al giorno d’oggi, per fortuna, iniziano finalmente a scoprire la propria sfasatura temporale.

Qualcuno incolpa la musica trap, derivata del rap, genere maschilista per eccellenza (si veda il recente dibattito portato avanti da Cristiana Capotondi e alcuni colleghi), ne fa il capro espiatorio della dilagante violenza di genere d’oggi. In realtà l’origine del fenomeno è ben più radicata (e forse anche celata) nelle radici della nostra musica.

Il mansplaining nella musica italiana

Un caso un po’ più controverso riguardo fenomeno del mansplaining è quello di Quello che le donne non dicono. “E se ci trasformiamo un po’ è per la voglia di piacere a chi c’è già o potrà arrivare a stare con noi”, canta Fiorella Mannoia in uno dei suoi capisaldi, ideato dalla penna del duo Enrico Ruggeri e Luigi Schiavone. E ancora, “ma potrai trovarci ancora qui, nelle sere tempestose, portaci delle rose, nuove cose. ti diremo ancora un altro sì”, di donne che vivono alla disperata ricerca d’amore, relegate all’essere bisognose di un uomo al loro fianco. E raccontate – ancora una volta, ma guarda un po’ – dalla prospettiva maschile. Fiorella Mannoia ha dichiarato di recente di non essere mai stata particolarmente convinta di quei versi, che dietro quello da sempre descritto come un inno del potere femminile, celavano un’assunto (non tanto) velato di donne sempre disponibili e accondiscendenti.

Fiorella Mannoia sul palco dell'Ariston

Fiorella Mannoia sul palco dell’Ariston

Ed è così che un verso storico diventa “ma non saremo stanche, neanche quando ti diremo ancora un altro no”, per modifica della stessa interprete. A dimostrare che sì, a prescindere da tutte le dispute in merito, il linguaggio conta. Nel sociale, nel politico, nel quotidiano e nell’arte. Cambiare la lingua, pesarne le parole, sono una diretta conseguenza del tempo, una piccola rassicurazione affinché chi non ha voce possa finalmente averla, e chi non è mai stato rappresentato, finalmente ci si senta un po’ di più. La musica è la più immediata espressione del presente. E in un presente di donne indomite, battagliere e emancipate, vogliamo canzoni che sappiano raffigurarci così: non signore, ma tante per cui la guerra non è mai finita.