In un periodo di sovrapproduzione, specialmente nel mercato seriale, è sempre più difficile dar vita a prodotti che appassionino il pubblico, a personaggi riconoscibili a cui gli spettatori riescano ad affezionarsi. Il Re ci è riuscito, ne sono indici evidenti la seconda stagione imminente e l’acquisizione della serie in numerosi paesi, anche extra europei.
Dal 12 aprile su Sky e Now tornano i nuovi episodi della seconda stagione del prison drama all’italiana con Luca Zingaretti e Isabella Ragonese, e il ritorno di Bruno Testori passa ancora una volta per il carcere San Michele e per tutte le storie che si intrecciano a questa location, che fa quasi da personaggio a se stante.
Testori (Zingaretti) è un vero e proprio tiranno del carcere. Direttore sui generis, porta sulle sue spalle tutto ciò che succede tra le mura del San Michele. Ne è parte attiva, di quelle mura. Ne decide attivamente regole, divieti e sotterfugi. Detentore di un potere autarchico che si sgretola all’improvviso, ribaltando la sua situazione già dalla prima puntata di questo secondo capitolo.
“Assomiglia un po’ al colonnello Kurtz. Aveva una missione, poi ha perso la bussola, ed è diventata un’ossessione”, lo descrive così, il suo personaggio, Zingaretti. Lo ritroviamo in questo secondo capitolo in un ribaltamento totale della sua condizione: dall’altro lato delle sbarre, in una cella su cui prima comandava, che ora abita.
Analizzare i personaggi senza mai giudicarli
Alla base di tutto, l’esigenza narrativa di scavare nella mente di questo personaggio, per studiarlo fino in fondo. “Bruno si trova costantemente a dover scegliere tra un male e un male minore, pur cercando di non tradirsi. Questo è ciò che più di tutto attira lo spettatore”, commenta lo sceneggiatore Peppe Fiore. “Prendere il protagonista e gettarlo nella peggiore delle ipotesi, sottoporlo ad un crash test e vedere fin dove resiste, era un inizio eccitante”, aggiunge lo sceneggiatore Alessandro Fabbri, “Dipanare un racconto che scavasse ancora di più nel personaggio è stata la nostra stella polare”.
Quest’analisi dei caratteri e dei moventi dei detenuti è evidente. Ed è forse l’elemento cardine di un progetto come quello de Il Re. “Credo che la chiave del successo di questa serie sia che si focalizza sull’aspetto umano dei personaggi”, argomenta Caterina Shulha, una delle new entry di questa nuova stagione, nei panni dell’avvocatessa Agosti. “Ma ciò che colpisce sono anche i ritmi dilatati, calmi”.
In effetti, si concede anche lunghi piani sequenza, dialoghi di più minuti e scene prive di colpi di scena. Un rischio, in un epoca storica fatta di prodotti immediati e veloci, che sembra tuttavia aver trovato la sua quadra. “Siamo sulla falsa riga di alcuni prodotti esteri, dove i ritmi sono cinematografici”, aggiunge Thomas Trabacchi, che interpreta l’altro nuovo arrivato, il magistrato Mancuso, uomo di giustizia e potere disposto anche al male. “Ci vuole un certo coraggio, ma almeno per preferenza personale, credo sempre che godersi qualcosa implichi un po’ di pazienza”.
Il prison drama: il genere del momento
Il Re calca anche una delle tendenze del momento: appunto il prison drama. Uno tra i generi più seguiti degli ultimi anni, proprio per la possibilità che spesso dà di conoscere i personaggi dal profondo. “Hanno successo perché sono un po’ come i reality. Si mette tanta gente in un luogo chiuso e gli si impedisce di uscire. Inevitabilmente dopo un po’ la gente si azzuffa e fa uscire dei meccanismi interessanti”, dice Luca Zingaretti a THR Roma.
“Un po’ di domiciliari ce li siamo fatti tutti”, aggiunge Gagliardi, facendo riferimento alla pandemia. “La gente si identifica nel fatto di aver vissuto in una costrizione che, seppur in modo diverso, abbiamo avuto un po’ tutti”.
“Avere uno spazio chiuso e regole obbligate di movimento dei personaggi, permette alla scrittura di arrivare subito all’osso delle dinamiche. Non ci sono le sovrastrutture che ci sono nella vita quotidiana, perciò le esistenze in carcere sono più simili a quelle di un racconto”, spiega Fabbri.
Il successo de Il Re
Ciò che evita di fare Il Re è di calcare ancora sulla contrapposizione tra bene e male. Parla di giustizia, ma senza ergersi allo status di opera di denuncia. “I nostri sono due personaggi shakespeariani, che si trovano di fronte a delle scelte in un mondo senza Dio”, dice a THR Roma Isabella Ragonese. La sua Sonia è un comandante carcerario che vive il suo ruolo con grande e perenne conflittualità. “La trovo amletica: si pone sempre dei dubbi, ed ha un’enorme difficoltà nell’azione perché è sempre contraddittoria”.
“La giustizia è una costruzione umana, dunque imperfetta”, aggiunge, sintetizzando la conditio sine qua non, in primis di regista e sceneggiatori e in seguito anche di tutto il cast: quella di non intraprendere mai la via del giudizio. Che sarebbe troppo semplicistica e banale, rispetto a un prodotto che tenta di indagare sulla psiche dei suoi personaggi. E ne fa la chiave della buona riuscita di entrambi i suoi capitoli.
“Mattia Torre diceva ‘l’inferno è pieno di seconde stagioni’, sottintendendo che queste non riescono quasi mai a soddisfare le aspettative che le prime avevano creato”, chiosa Luca Zingaretti. “Invece io, in questo caso, sono veramente molto contento del risultato”.
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