Maurizio Lombardi, da Sorrentino a Ripley: “Steven Zaillian mi ha detto che in bianco e nero ricordo Bogart. Ma io mi sento più Buster Keaton”

Tra i protagonisti della nuova serie-evento di Netflix firmata dal premio Oscar per Schindler's List, l'attore sa che la comicità è una cosa seria ("Frankenstein Junior è il tetto massimo della risata") ed è pronto per un The Artist all'italiana. Nel frattempo continua a conquistare l'estero, da Citadel: Diana a M - Il figlio del secolo. L'intervista di THR Roma

Ha una faccia che non si dimentica Maurizio Lombardi. Che arriva prima di tutto il resto. Gli occhi grandi, tondi, le guance scavate, quell’aria che proviene da un altro tempo. E, proprio perché classica, abbinabile a tutto. L’ultima sua versione è per l’ispettore Pietro Ravini, sulle tracce del misterioso e ambivalente Thomas Ripley nella serie Netflix che prende il cognome dal famoso protagonista nato dalla penna di Patricia Highsmith.

Personaggio che lo ha portato ad avere un cartonato sulla “boulevard” di Los Angeles, da cui è tornato dopo aver solcato il red carpet dello show firmato dal premio Oscar per Schindler’s List, Steve Zaillian. Il secondo regista incensato dall’Academy per Lombardi, dopo Paolo Sorrentino. Un misto tra Humphrey Bogart e Buster Keaton, come lo chiamano per strada. Sicuramente un attore che il bianco e nero sa come indossarlo.

Lombardi, Ripley su Netflix. È una delle migliori serie del 2024, non trova?

È molto bella. È un progetto forte. Il tipo di lavoro che dà senso alla propria carriera.

Perché? Quale tipo di soddisfazione lascia una simile produzione?

È il sapere di far parte del pazzo mondo di un artista. Il passo fondamentale per me è stato quando Paolo Sorrentino mi ha permesso di entrare nel suo The Young Pope. Certo che con Ripley l’ispettore Pietro Ravini ha molte più scene e maggiore respiro. Ma il cardinale Mario Assente rimane iconico.

Lo ha preferito all’ispettore di Ripley?

Non si tratta di preferenze. C’è solo il fattore della prima volta in una produzione di tale importanza, per cui proverò sempre un’affezione magica verso la serie di Sorrentino. Vorrei poterci lavorare di nuovo. Mi sento affine alla sua scrittura, penso di poter vestire bene gli abiti del suo cinema.

Ha anche altri progetti internazionali che l’aspettano.

Sarò in Citadel: Diana, la versione italiana e seconda stagione della serie action di Prime Video, e sono nel cast di M – Il figlio del secolo che, pur avendo avuto un intero cast italiano, è stata diretta da Joe Wright. C’è anche un film, Casi el Paraíso, un’opera in lingua spagnola molto divertente e dalla lunga gestazione. Non mi diletto con la lingua, però, anche perché interpreto un italiano. Ma Andrea Arcangeli, che è il protagonista, ha dovuto fare un lungo lavoro di preparazione.

Felice?

Direi che per l’estero sto messo bene.

Che genere di stimolo trova nelle produzioni internazionali? C’è un modo per affrontare al meglio opere in una lingua che non è la propria?

Intanto devi imparare le battute a memoria come fossero l’Ave Maria. È l’approccio fondamentale per lavorare all’estero. Questo ti permette di andare velocissimo con le battute. Non essendo una lingua affettata come l’italiano ti dà anche l’opportunità di lasciare la parole sospese, con le loro vocali e consonanti che non hanno mai una chiusura definitiva. Di certo è più facile, se la si conosce bene. E dà una grande soddisfazione, sia quando si recita che nel canto.

Canta spesso in inglese?

Non molto. Però quando compongo le canzoni per i miei spettacoli fingo uno slang inglese che non esiste, ma funziona meglio per i brani. Non vuol dire nulla, ma fa figo.

Come faceva Celentano.

Esatto, lo stile crooner anni cinquanta, i grandi frontman con lo smoking, la sigaretta, quel modo di fare anche un po’ francese. Paolo Conte, infatti, ai francesi li fece uscire fuori di testa. Con quell’abbigliamento elegante, la voce bassa, il mangiarsi le parole che non ci si capiva una mazza. Però li conquistava tutti.

La vedrei al centro di una storia su un cantante alla Frank Sinatra. Sempre in bianco e nero.

Sarebbe bellissimo. Una storia in stile The Artist all’italiana. Fra l’altro me lo ha detto anche Steven Zaillian che il bianco e nero mi sta proprio bene, diceva che sembravo un po’ Humphrey Bogart.

Potrebbe esserci un complimento migliore?

In verità il complimento più bello me lo ha fatto un ragazzo dopo la première di Ripley. Ci trovavamo in un bar di Hollywood Boulevard, dove si ubriacava tra i tanti Bukowski, una di quelle chicche che mantengono il gusto e la spettacolarità di un tempo altro. Ero lì, vestito in smoking, uscito dalla Duetto Alfa Romeo di un mio amico regista e un ragazzo si avvicina dicendomi: non ci credo, sei Buster Keaton!

E lei come si sente di più: Humphrey Bogart o Buster Keaton?

Buster Keaton, per il viso sì.

Maurizio Lombardi

Maurizio Lombardi

Un viso che, effettivamente, la rende ben riconoscibile, che comunica di per sé. Come lo ha portato in tutti questi anni?

All’inizio non lo capisci. Sei ragazzo, magari sai di avere qualcosa di caratteristico, ma non lo sai sfruttare. Cominci a comprenderlo quando hai gente davanti a te che riesce a leggerti, e che da quella particolarità ti aiuta addirittura a portare a casa il risultato. Se non riesci ad avere subito la fortuna di incontrare quel qualcuno, allora cominci a comprendere le tue potenzialità da solo, intraprendendo un lungo percorso nel mondo dello spettacolo.

E cosa si scopre, alla fine?

Di poter portare nelle storie un tocco vintage. Il classico in un mondo a volte eccessivo, sovraccaricato. Giocando la carta dello charme rendendo elegante un racconto contemporaneo. Proprio, appunto, come The Artist.

Non lo ha mai sentito, a volte, come un impedimento?

No, perché ho sempre e solo voluto vedere questo mio volto e questa mia fisicità come una caratteristica, non l’unica cosa su cui puntare. L’obiettivo, per riuscirci, è differenziare, scegliendo progetti che non si assomigliano. È importante, soprattutto in Italia, dove se hai una faccia o una voce ingombranti rischi di non scrollarti mai certi ruoli di dosso.

E lei a quali facce e a quali corpi guardava quando era giovane?

Dario Fo, Giorgio Gaber, Gigi Proietti. A livello teatrale, in particolar modo da piccolo, guardavo molto a loro. Proietti soprattutto. Ci sono stati poi i Monty Python, il trio Solenghi, Lopez, Marchesini, mie aspirazioni comiche. Sono figlio di Frankenstein Junior, tetto massimo della comicità mondiale. Ma per l’ampio spettro di interpretazioni ho sempre ammirato Dustin Hoffman. Ha fatto la donna, ha fatto il disadattato, ha fatto troppi, troppi ruoli fuori da qualsiasi altra percentuale di qualità così alta. Poi mi conquistarono gli occhi azzurri di Paul Newman e la mascella di Warren Beatty ne Il paradiso può attendere, tra i miei film preferiti di sempre.

Eppure, negli ultimi anni, non ha fatto troppe commedie, o sbaglio?

È molto difficile fare la commedia. Servono grandi penne. Non ci si improvvisa Billy Wilder, a quei livelli si è dei fuoriclasse. Come Mel Brooks, il Maradona della risata. Il dramma o il genere romantico è facile, una commedia scritta da Dio che fa ridere tutti esce ogni morte di Papa, è puro virtuosismo.

Le piacerebbe scriverne una? Sta lavorando a qualche progetto di proprio pugno?

Sto scrivendo. Ho un paio di serie in cantiere e due soggetti di film. Poi a giugno, con la mia casa di produzione nata da poco, gireremo un cortometraggio a Cinecittà. Spesso la scrittura serve anche per darsi quei ruoli che, altrimenti, non arrivano mica. A tutti piace fare i protagonisti, a volte però bisogna crearseli da soli. Mi garba poi molto l’idea di stare dietro la macchina da presa. Abbiamo visto nell’ultimo anno tantissimi attori passare dall’altra parte e il motivo per cui sono così bravi è che hanno imparato come si fa il mestiere, hanno osservato, sono stati sui set.

Invece come è andato l’incontro con Steve Zaillian, creatore e regista di Ripley?

Ho presentato il mio book di foto, ho portato il mio intero studio sul personaggio. Ma, ridendo, mi disse che mi aveva scelto come Ravini perché vedeva già il ruolo su di me, non dovevo convincerlo ulteriormente. Anzi, aveva il personaggio davanti agli occhi e l’1% che restava per dargli forma lo voleva cercare durante le riprese. Da qui i passi, l’acconciatura, la magrezza del volto, tutto scelto insieme.

Nonostante il premio Oscar?

Ma questo accade sempre se si lavora con i grandi. Con lo stesso Sorrentino è così. Porti una proposta, però poi si lavora insieme. Sono grandi proprio perché si affidano agli altri. Anche perché sono io l’attore, se decidi tutto tu, noi che ci stiamo a fare?

È anche un fan della sua The Night Of, vero?

Ci ho lasciato il cuore in quella serie. È il crime in purezza. La vidi e ne rimasi folgorato. Sei mesi dopo è arrivata la chiamata per Ripley.

Invece le chiedo: tra Risvegli, Schindler’s List, Gangs of New York, L’arte di vincere e The Irishman, i film per cui Zaillian è stato candidato durante la sua carriera agli Oscar, qual è il suo preferito?

Risvegli. Un film che mi ha spaccato in due. C’è un tema che mi sega completamente le gambe ed è l’amicizia. Ricordo che Schindler’s List, più sociale e politico, mi fece scoppiare a piangere all’improvviso. Ma la piccola storia contro l’epica tragedia, su di me, ha un effetto devastante.

Non trova, a suo modo, che anche il rapporto tra un ispettore e un colpevole sia un po’ una storia d’amicizia?

Infatti Ravini rimane affascinato dal comportamento di Thomas. Il detective è sempre attratto da colui che deve catturare. Se non ci fosse questa curiosità, questa spinta, non troverebbe il modo migliore per entrare nel caso, investigare. Deve quasi un po’ innamorarsene.

Lo ha fatto con Andrew Scott, il protagonista di Ripley?

Ha una forte radice teatrale, come me. Gli inglesi, poi, hanno un approccio tutto loro alla recitazione, diverso dagli americani o chiunque altro. Sono dei giocherelloni enormi. Almeno li ho sempre visti così. Hanno un modo di creare empatia che risuona nella scena, generano armonia. E Andrew ha fatto la stessa cosa. Mi era già capitato di notarlo anche con Jude Law.

Maurizio Lombardi è l'ispettore Pietro Ravini nella serie Ripley

Maurizio Lombardi è l’ispettore Pietro Ravini nella serie Ripley

Aveva letto il romanzo Il talento di Mr. Ripley di Patricia Highsmith, da cui è tratta la serie?

Avevo visto tutti gli adattamenti, ma ho letto il libro solo dopo essere stato preso per la serie.

Che poi, diciamocelo, è una di quelle storie che a volte non leggi perché hai la sensazione quasi di averlo fatto, per quanto la si conosce bene.

È perché è un archetipo. È qualcosa che vivono tutti. Per questo si ha come l’impressione di conoscerla da sempre. Come il Conte di Montecristo. Uno ti dice: sembri il Conte di Montecristo. Perché lo hai letto? No, ma so perfettamente cosa si intende. Il focus della serie, e della storia in generale, riguarda l’occhio con cui le persone osservano le vite degli altri. Come le bramano. Come pensano che possa essere sentirsi nella loro pelle.

Non a caso, tra gli ultimi esempi di film ispirati a Il talento di Mr. Ripley, c’è anche Saltburn di Emerald Fennell. Le è piaciuto?

Non mi ha entusiasmato, ma è così, riconosco la matrice di quel racconto. Ed è un meccanismo che, ad oggi, riscontriamo con le vite degli influencer, il fatto che ci siano bambini e bambine che vogliano imitarli. Ripley ritorna sia dentro che fuori lo schermo, sempre.

Lei ha mai desiderato la vita di qualcun altro?

Ho sempre pensato di essere l’esatto opposto. Il pensiero non è mai stato “Quanto vorrei essere questa persona”, bensì “Come sarebbe se”. E, da qui, trarre lo stimolo per provare e spingermi oltre. Ma non ho mai avuto il seme della gelosia radicato dentro. Se vedo un attore italiano molto bravo, al contrario di invidiarlo, cerco di capire cosa posso imparare da lui.

Nemmeno agli inizi?

Nemmeno agli inizi. Ero talmente immerso in ciò che volevo fare che non c’era posto per la gelosia. E non lo dico per fare il ganzo, ma perché penso davvero che si possa sempre apprendere qualcosa dagli altri, soprattutto da chi ci ha preceduto.

Eppure ha intrapreso un percorso di studi in architettura. Come mai?

Però già recitavo. La mia famiglia non ha mai frequentato le arti, nel senso stretto del termine. Non c’erano attori, pittori, cantanti. Erano mobilieri e studiare architettura era una conseguenza inconscia. Ma l’ho fatto da sempre. Solo che poi è arrivato il momento in cui ho capito che era inutile continuare a perdere tempo.

Tra l’altro Ripley gioca benissimo con gli spazi, con gli arredamenti, con i luoghi che mette in scena. È una serie che prende dall’architettura, non trova?

Mai vista una rappresentazione così scevra da stereotipi come il Ripley di Steve Zaillian. Dal tavolino, al tinello ai rubinetti delle case, sembra di trovarsi nelle vecchie abitazioni dei nostri nonni, tra il design delle classi più umili sfociando nel gusto del polo dell’Italia del nord industriale. Anche nella recitazione, nel contorno, tutto era misurato, con nessun sbruffoncello che doveva per forza parlare con un forte accento.

La cosa che più sorprende dello show è il suo non avere fretta, prendersi tutto il tempo. Non è una storia da vedere e abbandonare, ma di cui assaporare ogni puntata. Che abbia sconfitto il binge watching?

Sì. Intanto è il genere noir che lo permette. Devi dare al pubblico qualcosa di diverso e intenso, altrimenti non ti segue. In più è l’unica strategia per salvarsi dal supermercato streaming che, inevitabilmente, scoppierà. Netflix ha avuto coraggio nel prendere una serie come Ripley, che non sfigurerebbe affatto in un festival come Berlino, in cui si cercano sempre opere più sperimentali, contraddittorie e peculiari. Bisogna stroncare la mercificazione delle storie. Solo con una presa di posizione si potrà tornare al predominio della qualità sulla quantità.

E come è stato vivere la grandezza delle première losangeline?

Dico solo che, durante la presentazione di Ripley, c’erano sei première in contemporanea. È un’industria vera e propria, che fa squadra, è coesa, si respira uno spirito di unione autentico che è il grande insegnamento che mi porto dietro dall’America. Anche noi sapevamo fare gruppo, ma è come se quella condivisone fosse stata sacrificata per salvaguardare il proprio orticello. Ed è essenziale che si torni ad essere compatti adesso, in cui la produzione nel nostro settore è in moto, in cui tutti i paesi si sono messi in marcia per conquistare il mercato e non dobbiamo assolutamente perdere il treno. Non adesso.

Immagino anche che siano i migliori ad organizzare i party.

È un po’ come il Giubileo a Roma. Come fai a organizzare qualcosa di meglio del Vaticano? Sono imbattibili.