“Marcello Lippi è uno che mette soggezione”. Non lo dice uno qualunque, lo dice Montero, lo stopper più “cattivo” e grintoso che ha visto il campionato italiano negli ultimi dieci anni. E lo dice, ancora oggi, con timore reverenziale.
È proprio così, il Paul Newman del calcio italiano ha un carisma naturale anche ora che si lascia andare a qualche sorriso in più, in cui è meno ingessato e ruvido di quando allenava, sempre in difesa dei suoi ragazzi.
Splendido (quasi) 76enne, torna alla ribalta per Adesso vinco io, documentario di Paolo Geremei (già autore dello splendido Zeroazero, storia di tre carriere di grandi promesse del calcio stroncate sul nascere, dalla sfortuna e da cattivi maestri, opera bellissima e struggente) e di Herbert Simone Paragnani (sceneggiatore e regista che ha esordito dietro la macchina da presa con l’originale Io e Angela, il più bizzarro e affascinante dei revenge movie) che lo ha anche scritto insieme a Umberto Riccioni Carteni.
Un film entusiasmante e profondo in cui si raccontano vita e miracoli sportivi del più grande allenatore del dopoguerra. Marcello Lippi, appunto.
Adesso vinco io, che ha un’uscita in sala di tre giorni – 26, 27 e 28 febbraio 2024, su 200 schermi – ed è una produzione On Production e Master Five Cinematografica con Rai Cinema e con il contributo del MIC – Ministero dei beni e delle attività culturali, al cinema con Lucky Red, che cura la distribuzione commerciale, sa riportarti agli ultimi anni gloriosi del calcio italiano e di un paese che sapeva proporre modelli, non solo sportivi, di strapotere tecnico, prima che economico e societario. Tanto che ti aspetti già trionfare pure al box office, perché uno come lui non si dimentica mai come si vince.
E guardando il film capisci che il buon Marcello è probabilmente l’ultimo alfiere di un calcio antico ma anche il primo traghettatore verso una modernità fatta, come direbbe Spalletti, di troppe playstation e cellulari. Ha vinto tutto, ha dato al Napoli post maradoniano le ultime soddisfazioni, alla Juventus record e l’unica Champions League che ha potuto davvero festeggiare, all’Italia il mondiale della quarta stella.
Nel documentario di Geremei e Paragnani si sente il profumo dell’erba di quei campi, di quegli stadi, di quei tacchetti di scarpini ancora non personalizzati. Di campioni d’Europa come Torricelli, che prima della Juventus facevano i falegnami, o di Ravanelli, centravanti operaio, che segna a Roma, nel 1996, il gol più bello della sua carriera nella finale più importante e nell’esultanza si ricorda del suo mister, prima che della società, e del compagno scomparso da poco, giovanissimo, Andrea Fortunato.
Altri uomini, altre qualità umane, altri tempi.
Marcello Lippi, non ci sono più i grandi uomini negli spogliatoi in questo calcio attuale?
La mia più grande fortuna è stata poter allenare grandi calciatori e sì, anche grandi uomini, uomini veri. Ogni periodo ha le sue espressioni, ora ci sono buoni giocatori, forse non forti, nel talento e nel carattere, come quelli che ho avuto nelle mie squadre, ma penso siano un bel gruppo che potrà fare bene.
Luciano poi è un grande allenatore, sono fiducioso. Credo che la Nazionale saprà darci soddisfazioni.
Come l’hanno convinta a mettersi davanti alla macchina da presa?
Ormai i docufilm sportivi non si negano a nessuno e Geremei e Paragnani hanno trovato che potesse essere interessante farne uno anche su di me. La cosa mi ha fatto piacere e lusingato e credo sia un bel lavoro, dove si guarda alla mia carriera sia dal punto di vista sportivo e tecnico che umano. E questa è la cosa che mi fa più piacere.
Lei ama molto le radici, la sua Viareggio, il suo mare ma non ha avuto paura di andare ovunque
Se ti riferisci alla Cina, era davvero difficile rifiutare, l’offerta economica era irrinunciabile. Da me non sentirete mai giudizi su Roberto Mancini che va in Arabia Saudita, per intenderci, o sui giocatori che accettano contratti faraonici da quelle parti, hanno fatto il mio stesso ragionamento.
Io poi ho avuto la fortuna di averla ricevuta quando avevo già ottenuto tutti i risultati possibili e immaginabili. E ho fatto questo colpaccio economico, condito dalla vittoria di altri tre scudetti e della Coppa d’Asia.
Lei è praticamente il Marco Polo del calcio. Di quel periodo qual è l’aneddoto che si porta dietro?
La conoscenza con Xi Jinping. Ancora ricordo che mi si avvicinò e in un’atmosfera formale, parlammo e io come se non fosse il presidente della Cina, probabilmente l’uomo più potente del mondo, ho pensato bene di salutarlo alla fine con una pacca sulla spalla. Quando me l’hanno fatto notare non volevo crederci neanche io, ma sono fatto così, sono uno vero. Certo, una violazione simile del protocollo così mi sa che non gli era mai capitata.
Che effetto le ha fatto rivedere la sua vita, le sue vittorie, i suoi dolori?
Succede più spesso di quanto si possa immaginare, mi capita spesso rivedere filmati della mia carriera, magari in tv. E non è mai brutto, è sempre molto piacevole, la mia è stata una vita, e una carriera, davvero piena di soddisfazioni. E le sconfitte ne fanno parte tanto quanto le vittorie, amo anche quelle. Un po’ meno, a dir la verità.
Senta, ora ce lo può dire, chi è più forte tra Francesco Totti e Alessandro Del Piero?
Ma che senso ha dire se uno è più bravo dell’altro? Sono stati due grandissimi calciatori, non aggiunge né toglie nulla, a loro e a noi, che io dica che uno è migliore dell’altro. Con entrambi io ho costruito squadre che mi hanno dato grandissime soddisfazioni.
È come dire: è più forte Messi di Zidane? Sono due epoche e due ruoli diversi, uno ha vinto sette palloni d’Oro e ha segnato un’epoca, l’altro l’ho allenato e gli ho visto fare cose che altri neanche immaginavano, ci ha fatto vincere tanto con la Juventus e per fortuna non lo ha fatto nel 2006!
C’è un allenatore oggi in Italia che potrebbe essere il suo erede?
Non voglio essere presuntuoso e quindi non lo dirò. Se faccio un nome, finisco per fare il nome di uno dei più bravi e non è elegante. Poi non mi piacciono certi paragoni, ognuno ha la sua carriera, il suo passato, presente e futuro, nessuno è uguale all’altro.
Lasciami dire, però, che un allenatore è importante, ma senza grandi campioni non entri nella storia del tuo sport. Alla Juventus mi chiamarono perché pensavano che potessi essere utile: alla fine abbiamo vinto otto scudetti, fatto tre finali di Champions, siamo stati Campioni d’Europa e del Mondo grazie ai miei giocatori. Senza di loro, potevo pure essere il migliore ma lo avrebbero saputi in pochi.
Quella Juventus è irripetibile? Ha consigli da dare a Massimiliano Allegri per replicarla?
Io non dò mai consigli, faccio un grande in bocca al lupo a lui, augurandogli di ottenere i miei stessi risultati su quella panchina. So solo che in quella società non si sta mai a lungo senza vincere, quindi visto che negli ultimi anni si sono alzati pochi trofei, manca poco.
Un giorno si dovrà capire come mai in Toscana nascano tanti mister così bravi e vincenti: lei, Spalletti, Allegri, Sarri.
Sarà qualcosa che mangiamo. Oppure il buon vino che beviamo, chissà!
Uno dei momenti più commoventi del film è il videomessaggio di Vialli alla rimpatriata della sua Juventus campione d’Europa. Chi era Gianluca Vialli per lei?
Una persona di grande livello e qualità umana prima che un campione con cui abbiamo fatto cose meravigliose, in campo e fuori. E faccio fatica a parlarne, avevamo un rapporto molto forte (lui, nel videomessaggio, chiama Marcello Lippi “messia” e gli chiede “non dimenticare il tuo centravanti”).
So solo che – per un attimo la voce si incrina – quando ho scoperto che il suo destino era segnato io sono rimasto veramente molto, molto, molto male.
Dopo questo film le è tornata la voglia di tornare a sedere su una panchina?
Solo su quelle della mia Viareggio, dopo le mie passeggiate quotidiane. Non ci penso neanche a tornare ad allenare.
Nel film quando si è emozionato di più?
Quando hanno parlato i miei figli Davide e Stefania, mio nipote Lorenzo e mia moglie Simonetta. Sì, le cose relative alla mia famiglia mi hanno emozionato. Tanto.
Dica la verità, in Germania, nel 2006, lei ha detto prima ai suoi ragazzi che si sarebbe dimesso a mondiale vinto?
Ma stai scherzando? (In realtà molti sostengono che sia stata un’ulteriore motivazione per il gruppo che aveva intuito quanto calciopoli e le contestazioni lo avessero ferito). Ovviamente non gliel’ho detto, è qualcosa che è venuto dopo quella grande gioia e ho deciso di lasciar spazio ad altri, dare un’opportunità ad altri colleghi (esita, la voce è un po’ incerta: la verità nel documentario la dice Davide “papà lo ha fatto per me, io lo so. Per proteggermi”, uno dei momenti più forti del documentario).
In quel mondiale c’era anche Gigi Riva, recentemente scomparso. Cosa ricorda di lui? Le venne mai in mente, quando tutti salivano sul carro del vincitore, di prendere lo zaino e andarsene dal pullman scoperto su cui festeggiavate il mondiale a Roma, proprio come fece Rombo di Tuono?
No, no avevo fatto troppo per salirci! Anche se è vero che io la sera della vittoria mi defilai e andai in camera d’albergo a rivedere la partita con un sigaro in una mano e un bicchiere di vino nell’altra. Quanto me la son goduta.
Tornando ala perdita di Gigi Riva, è stata molto difficile da sopportare, lui è stato parte integrante e fondamentale di quel gruppo, di quella vittoria straordinaria, mi è stato sempre vicino, gli ho chiesto molti consigli e lui non si è mai risparmiato. Siamo stati insieme per tanti anni, insieme abbiamo costruito quella squadra campione del mondo. Un uomo gentile e forte, dai valori straordinari. Una bellissima persona, un grande.
Le piacerebbe vincere un David di Donatello con questo film?
Alzare un trofeo è sempre piacevole, non dico di no. Se vogliono darmelo, io ci sono. Scherzi a parte, se dovesse arrivare ne sarei felice soprattutto per i due registi e per i produttori, che hanno lavorato molto e bene per fare questo film.
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