I teneri ricordi di Carlo Verdone in piazza, da Sordi a Moana passando da Borotalco

La fiducia di Cecchi Gori che gli cambiò la carriera, i consigli del padre per sopravvivere nel cinema e il saluto a Francesco Nuti "forse nato sotto una stella non proprio positiva". L'attore e regista si racconta al Pesaro Film Festival

Partiamo dalla fine. “Sono quarantasette anni che pago i contributi. Sapete cosa vuol dire quarantasette anni di contributi nelle casse dell’industria dello spettacolo? E, dopo tutti questi anni, è bello sapere che il pubblico mi dimostra ancora tanto affetto”. È un Carlo Verdone tenero e quasi commosso quello alla 59esima edizione della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro. Un incontro che il direttore artistico Pedro Armocida bramava da tempo – “infatti me ne dispiaccio, ma che devo fare, d’estate sono sempre sul set a girare” – e che si conclude con il saluto spassionato del comico romano: “I love you, I love you”.

Un’atmosfera conviviale, in cui Verdone si è fatto trascinare tirando fuori l’animo da mattatore e portandoci dietro le quinte della pellicola Borotalco, che verrà subito dopo proiettata in piazza. Settantatré anni e ventisette film da attore, sceneggiatore e regista. Di cui racconta i retroscena, svela qualche segreto e si emoziona al ricordo dei suoi padrini artistici e dei momenti famigliari. Attendendo di vedere accendersi lo schermo, per un film che a Carlo Verdone gli ha davvero cambiato la via, più dell’esordio Un sacco bello.

Un manifesto (a detta di Carlo Verdone)

“Se non ci fosse stato Borotalco non saremo qui a parlare oggi”, si lancia Carlo Verdone, ripercorrendo la nascita della commedia del 1982.

“La mia carriera sarebbe stata del tutto diversa. Avevo già esordito nel 1980 col primo film da regista Un sacco bello, vincendo da subito David di Donatello o Biglietti d’oro, anche col secondo lavoro Bianco, rosso e Verdone. Solo che i miei produttori e anche Sergio Leone, che era il mio padrino artistico, mi avevano abbandonato. Si erano messi in testa che avevo già sparato tutti i miei personaggi nei due film iniziali e probabilmente non sarei stato in grado di reggere un’opera con un personaggio unico, che non avesse parrucche strane o bisogno di trucco. Era umiliante, la mattina mia moglie usciva per andare al lavoro, si girava verso di me che ero sul divano e mi chiedeva: anche oggi non vai a lavorare? ‘No’. Sergio? ‘Se ne è andato’, le rispondevo. Medusa? ‘Pure’. E perché? ‘Perché il cinema è una stronzata’. Lì ho pensato davvero fosse finita, ho addirittura aperto un cassetto e ritirato fuori la mia laurea in storia e religione dell’Oriente antico – sì, mi sono laureato in religione, forse è per questo che mi vengono tanto bene i preti. Passa un mese, prendo il vespone, e mi dirigo per parlare col mio vecchio professore, con cui avevo fatto quattro esami. Ero disposto a fare l’assistente e riprendere la carriera accademica”.

Non è finita qui. “Arrivo alla Sapienza, mi dirigo al mio dipartimento e incontro il bidello, che mi riconosce. Mi fa: che carrierona che ti sei fatto! Penso: sì, ciao core. A quel punto chiedo dove si trova il professore, lui mi guarda e mi dice: s’è ammazzato. Ma come ammazzato? Non si sapeva il motivo, forse aveva indagato troppo ed ha capito che, alla fine, in questa vita e quella dopo davvero non c’è mica niente. Passano tre settimane e un giorno squilla miracolosamente il telefono. Era il mio agente e mi fa (ne imita la voce, ndr): ho ricevuto una chiamata da Cecchi Gori, domani hai un appuntamento alle quattro, mi raccomando sii puntuale. Mi reco allo studio e c’era Mario Cecchi Gori, padre di Vittorio. Entra, mi guarda e mi dice: basta fare film dove interpreta tanti personaggi, ne faccia uno solo, so che lei ce la può fare”.

“Così con Enrico Oldoini ci mettemmo alla sceneggiatura”, continua Verdone. “Ci lavorammo per undici mesi. Scrivevamo ogni giorno, abbiamo buttato non si sa quanti malloppi di carta. Poi, l’illuminazione di Oldoini: perché non fare una storia d’amore su due mitomani, soprattutto lei, che venga rappresentata con la musica degli anni Ottanta e attraverso il genere della commedia degli equivoci? Così, piano piano, nacque Borotalco. Per la parte di Manuel Fantoni volevano Vittorio Gassman. Con tutto il dovuto rispetto, ma ho cercato di sviare strada”.

“Ero considerato tra i registi della nuova generazione, volevo mantenere quella linea anche per Borotalco, così proposi Angelo Infanti, con cui avevo già lavorato a Bianco, Rosso e Verdone. Il film, poi, è diventato un omaggio al grade cantautore Lucio Dalla, la cui piena forma artistica sono convinto sia esplosa proprio negli anni Ottanta. Borotalco mi ha dato infinite soddisfazioni. Fu un successo e, per la prima volta, mi fece sentire che potevo farcela come attore, senza dover fare per forza le caricature. Per questo è così importante per me”.

I consigli di un padre

Anche perché, Borotalco, è stata la pellicola preferita del padre Mario Verdone: “Fu il primo professore a ricoprire la cattedra di critica e analisi del film. Quando lo avvertii che avevo affittato una cantina off, “underground” come si chiamavano negli anni Settanta, mi disse: bravo, ti metti alla prova. Fu dopo il mio ritorno da Torino finito il programma televisivo Non stop e l’avvicinamento del film con Sergio Leone che iniziò a mettermi dei paletti. Affermava sempre che, se volevo fare cinema, dovevo farlo a livelli alti, altrimenti sarebbe stato un lavoro insostenibile.

È una cosa che mi è rimasta dentro per sempre. E so che fu orgoglioso di me fin dal mio debutto, ma affermò che Borotalco era il suo film preferito, a prescindere dagli altri che avrei fatto. Gli piacque il dinamismo della commedia degli equivoci, ci vide Erich Von Stroheim nell’utilizzo delle porte, fece una bella analisi. Ma il vero consiglio che mi diede fu che per andare avanti avrei dovuto sempre mettere un po’ di poesia nelle mie opere, anche quando erano commedie, altrimenti non sarebbero valse nulla. Fu scettico quando cominciai, ma riuscii a convincerlo e, di questo, ne sarò sempre contento”.

Carlo Verdone: così nacque Fulvio

Con Borotalco Carlo Verdone cambiò la maniera di scrivere i suoi personaggi, anche se rimane iconica la nascita del personaggio di Furio del film Bianco, Rosso e Verdone (1981), che rivive con l’intera piazza del Pesaro Film Festival: “Furio è un po’ mio zio Corrado, logorroico assurdo che ti chiama alle sei del mattino da Firenze per avvertirti che lì sta diluviando e sapere se sta succedendo lo stesso a Roma. E un po’ un ragazzo che conobbi tramite una mia amica. C’era questo tipo che la corteggiava da un sacco di tempo, ma non era molto convinta, era un giovane strano però gentile, quindi voleva un consiglio da amico fraterno. Così andai a casa sua mezz’ora prima del suo arrivo”.

“La mia amica mi avvertii, si raccomandò dicendomi che non avrei dovuto ridere o fare gesti o altro, perché altrimenti avrebbe riso anche lei. Suona la porta. Aspetto nel salottino. All’ingresso di presenta questo tipo con cappellino tirolese con piuma, radio estraibile e borsello. Appena visto, la prima reazione è stata pensare: mio Dio… Ma fu la battuta successiva che mi stese. Aveva una scatola di cioccolatini, la porse alla mia amica e le disse: ti ho portato questi per addolcirti la bocca. Poi le diede un bacio sulla fronte. In quel momento mi sono dovuto voltare per non ridere. Si girò e si rivolse a me: scusatemi, c’era un traffico allucinante, meno male che dovrebbe esserci crisi, ma dove, che stanno tutti in giro e ci ho messo un’ora e dieci da Barberini a qui. Era un insieme di qualunquismo e banalità che non potevo crederci. Quando andai via la mia amica mi accompagnò all’uscita. Il mio commento: ma che cazzo ti è venuto in mente?”.

Carlo Verdone a casa di Sergio Leone a Roma nel 1985

Carlo Verdone a casa di Sergio Leone a Roma nel 1985

Pronto, siamo la Manetti & Roberts

E se vi siete mai chiesti la natura del titolo Borotalco, è molto semplice: “Ho trovato tutti i titoli dei miei film, tranne Bianco, Rosso e Verdone, un’idea dello sceneggiatore Piero De Bernardi. Borotalco dava al film un senso di leggerezza, come una nuvola. Un nome che richiamava un profumo, la sensazione di qualcosa di candido, fumettistico, quasi da piccolo fotoromanzo.

In più voleva essere un ritratto di quegli anni Ottanta in cui, forse, eravamo tutti più buoni, c’era più voglia di aggregazione, di condivisione. Si volevano lasciare alle spalle gli anni di piombo e buttare luce su una speranza e un ottimismo che non potevano raggiungere gli insuperabili anni Sessanta, ma che in Borotalco volevamo riportare come questa nuova energia dei giovani negli Ottanta.

Il problema fu quando uscirono i primi striscioni. Inizia la promozione del film, siamo tutti entusiasti, quando a un certo punto la Manetti & Roberts chiama Cecchi Gori e dice che vogliono fargli causa. ‘Questi fiorentini vogliono farci causa, ma chi sono, che vogliono?’. Praticamente il dirigente della Manetti & Roberts disse che Borotalco lo avevano inventato loro, prima non esisteva come sostanza.

Chiesero un sacco di soldi. Allora Cecchi Gori strinse un accordo vantaggioso: gli disse che se il film fosse andato bene, avrebbero avuto una pubblicità pazzesca, se invece fosse andato male avrebbe pagato una parte dei tanti soldi che gli avevano chiesto. Il film fu un successo tale che non si fecero più sentire”.

Quella volta che Verdone incontrò Moana Pozzi (nuda)

Impossibile non chiedere di quel cameo fugace in Borotalco, un’inaspettata Moana Pozzi che compare per un attimo nel film: “Cercavamo la casa per il personaggio di Eleonora Giorgi. Non avevamo tantissimi soldi, quindi serviva un appartamento vero. Ci indicarono una ragazza che affittava una casa al centro, quindi ci recammo con il mio organizzatore, il direttore della fotografia, l’elettricista e il macchinista per un sopralluogo.

Ci accoglie una bella ragazza, entriamo, diamo uno sguardo all’ambiente e ci accorgiamo che è tutto come previsto. C’era però un problema: serviva una stanza in più. ‘In verità ci sarebbe, ma c’è una ragazza che sta dormendo’, mi dice. Che lavoro farà mai questa che erano le 12.45? Bah, avrà fatto tardi la sera prima, pensai. Noi insistiamo per vederla, allora va alla porta, bussa: chi è? ‘Guarda, scusa, ci sarebbe una troupe che deve vedere la stanza per un film’. ‘Entrate, entrate’.

Apre la porta e ci troviamo una ragazza completamente nuda sdraiata sul letto. Tutti rimaniamo imbambolati. Mi sforzai di comportarmi normalmente, mi guardai intorno, e farfugliai che sì, sembrava che la camera andasse bene. Andati via, continuammo a pensare a quella ragazza che, per un attimo, alzandosi dal letto ci si parò davanti completamente nuda.

Passa un po’ di tempo, vado a cena a casa di Massimo Troisi, e chi mi ritrovo? La stessa ragazza, Moana Pozzi. ‘Ma ti rivedo qui?’, le dissi. ‘Sì, ma vestita stavolta’, rispose. Tutta leopardata, aggiungo. Quando andai via le chiesi se le sarebbe piaciuto avere una piccola parte in un film: ecco che quando arriviamo nella casa di Manuel Fantoni c’è una ragazza nuda che fa un bagno in piscina. È lei, Moana Pozzi”.

Una carriera a lanciare stelle

Che poi, le donne, sono sempre state al centro della filmografia di Carlo Verdone: “Nella mia vita privata ho più amiche che amici. Ho stimato sempre più le donne, trovo sappiano ascoltare meglio, sanno essere più forti. Dopo l’ondata del femminismo anni Settanta c’è stato un livellamento che ha coinvolto la società e le famiglie, e da cui la figura femminile è fuoriuscita con più carattere.

L’uomo è rimasto infantile. Ne ho conosciuti tanti che a trentasei anni abitano ancora con i genitori e si fanno preparare la cotoletta dalla mamma. Borotalco arriva sulla scia di questo femminismo: il personaggio di Giorgi è più svelto del mio, che sostanzialmente è un imbranato. Io, come Troisi, abbiamo portato una visione nuova dei ruoli. Per noi la donna era un’enigma, un ideale quasi da decifrare. Non era solo l’oggetto da rimorchiare come negli anni Sessanta e Settanta di Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi.

Tra l’altro, ho capito presto che le mie migliori performance comiche sono sempre nate dal trovarmi in una posizione di difficoltà, e chi potrebbe farmi sentirmi in una tale situazione se non una donna? Tutti i personaggi femminili nei miei film mi hanno messo in difficoltà. E la più grande soddisfazione è sempre averle dirette portandole anche alla ribalta.

Claudia Gerini è esplosa con Viaggi di nozze. Asia Argento era in Non perdiamoci di vista. Ho reso umana Ornella Muti, non più figura intoccabile dei film di Celentano, ma ragazza della porta accanto. E quando hanno raggiunto dei premi o dei successi, sono stato più felice di quando li ho conquistati io. Vorrei essere ricordato come il regista che esaltava e amava le sue attrici”.

“Alberto Sordi mi voleva bene”

Il comico va dall’ideazione dei personaggi alle collaborazioni storiche, dal già citato Sergio Leone, al mito di Alberto Sordi, di cui Verdone condivide col pubblico due ricordi intimi e privati: “Ricorderò sempre Alberto Sordi come una persona che mi ha voluto bene. E io ne ho voluto a lui. Non era facile essere suo amico. In pubblico aveva sempre il sorriso, ma nel suo privato era un uomo molto austero. Un po’ il dottor Jekyll e Mr. Hyde. Era geloso della sua privacy, probabilmente era una reazione al proteggersi dalla folla, che spesso sa essere invadente.

Lavorammo insieme per In viaggio con papà. Mi invitò ad un’anteprima privata alla Fono Roma, in cui invitò tutta la Roma che contava. Dentro di me lo sapevo già, sicuramente aveva tagliato tutte le mie scene. In una magari non gli ero piaciuto, in una non funzionavo, ma ero pronto a tutto. Invece rimasi stupito. Non solo aveva lasciato tutto me, ma aveva tolto molto di lui dal film. Lo ringraziai e mi disse: se una cosa funziona la lascio, mica so scemo, anzi mi sono tagliato io che ho allungato troppi miei dialoghi. Non è una cosa da tutti, soprattutto per qualcuno che viveva del culto di se stesso.

Sicuramente lo legherò sempre a due momenti della mia vita, uno molto bello, l’altro incredibilmente triste. Mia mamma morì a luglio del 1984 dopo un calvario durato quattro anni. Aveva una malattia neurovegetativa rara, forse una delle più brutte al mondo. In un momento di lucidità fece una richiesta: vorrei salutare Alberto Sordi. Ormai in quel momento mia madre non era sempre lucida, si vede che ebbe un flash e ricordò di quando, da insegnante, invitò Sordi al liceo in cui lavorava, e lui andò facendo felici tutti, studenti, preside e mia madre ne rimase commossa.

Vedere mia madre in quel momento non era facile, era qualcosa da cuori forti. Ma lui venne. Mi resi conto che si sentiva in difficoltà, era una situazione che non poteva reggere. Ci mettemmo a cena e dopo il primo gli feci, stringendogli forte la mano: Alberto, avevi quell’appuntamento, vai pure sennò fai tardi. Tanto anche mia madre, forse, non stava capendo bene quello che stava succedendo. Allora lo accompagnai alla porta, mi disse che non c’è un motivo, ma la vita a volte va così e bisognava farsi coraggio.

Il ricordo felice, invece, è quando nacque mia figlia Giulia nel 1986. Invitammo a cena Sergio Leone e la moglie, Pippo Baudo con una compagna e Alberto Sordi che venne con una polacca alta un metro e ottantacinque. Portò un’orchidea e ci disse che era per Giulia, che dovevamo piantarla bene e che avrebbe vissuto per sempre. Lo giuro su Dio, dal 1986, l’orchidea è ancora viva. Ha fatto altri rami, è cambiata negli anni, ma è sempre lei e ogni volta che la guardo penso a Alberto Sordi. Una persona che mi ha fatto amare la commedia italiana.

Alla fine degli anni Sessanta andavo sempre al cineclub, quattro o cinque volte alla settimana. Lì mi sono formato, ho conosciuto autori tedeschi, i classici del cinema muto, i registi americani. E con la rassegna sulla risata italiana sono rimasto incantato da Sordi, un folle attore futurista che non aveva frequentato nessuna accademia teatrale e fece della sua recitazione una maschera. Lo ringrazierò sempre per In Viaggio con papà e Troppo forte, per cui abbiamo lavorato insieme, ma mai quanto per Lo sceicco bianco, I vitelloni e soprattutto Una vita difficile”.

In ricordo di Francesco Nuti

E, per finire, torniamo all’inizio. In apertura della serata, Carlo Verdone ricorda il collega Francesco Nuti, venuto da poco a mancare: “Siamo nati artisticamente insieme nel 1978. Poverino, ha vissuto gravi vicissitudini, ma ha fatto dei film importanti per il cinema italiano. Con Massimo Troisi, e anche un po’ Roberto Benigni, venivamo considerati i nuovi comici dell’epoca. Ci chiamavano I magnifici tre.

Facemmo chiudere svariati cinema a luci rosse per portare un inedito modo di fare commedia. Era una persona geniale, un amico. Forse è nato sotto una stella non proprio positiva. Gli vorrò sempre bene”.

Carlo Verdone tornerà nel 2023 su Paramount+ con la seconda stagione di Vita da Carlo (potete trovare la prima su Prime Video).