Philippe Leroy è morto. Yanez, per almeno due generazioni. Iconico come e più di Sandokan, eppure quell’attore versatile che recentemente avevamo visto persino in Don Matteo, tra film e sceneggiati aveva toccato e superato 200 opere in cui ha mostrato tutto il suo talento. Fino a cinque anni fa, quando girò per Francesco Lazotti La notte è piccola per noi.
Nato a Parigi il 15 ottobre del 1930 come Philippe Leroy-Beaulieu, erede di una famiglia aristocratica – e insignito per nascita di un titolo, sempre irriso, di marchese -, sei generazioni di soldati e ambasciatori alle spalle, andò a scuola dai gesuiti per poi, a soli 17 anni imbarcarsi come mozzo su una nave per gli Stati Uniti come un personaggio di Joseph Conrad.
Rientrato in patria finisce nella Legione Straniera e va a combattere in Indocina ed Algeria, arruolato come paracadutista anche se non si butterà mai da un aereo fino a dopo i 50 anni. Torna dall’Algeria con il grado di capitano e varie medaglie sul petto (due legion d’onore e una croce al valore), ma ben presto capisce che è meglio trovarsi un lavoro, foss’anche al circo (lavorava coi cavalli) o pilota di bob o navigatore sulle barche off-shore. Un parente lo aiuta a assaggiare l’aria del cinema e Jacques Becker – colpito dal suo fisico asciutto, l’aria di chi ha visto il pericolo da vicino e conosce le armi – lo arruola nel cast del film carcerario Il Buco. Arriva subito un successo mondiale.
Veterano di una guerra che diventa impopolare alla vigilia dell’indipendenza d’Algeria, sull’onda delle frequenti coproduzioni italofrancesi degli anni ’60, capisce che è meglio cambiare aria. Vittorio Caprioli e Franca Valeri, che ha incontrato a teatro e che ne hanno intuito carisma e talento, seppure entrambi ancora acerbi sul grande schermo, lo aiutano ad affermarsi in Italia.
Arriva Leoni al sole (1961), sfruttando la sua seconda dote, anzi quella naturale, che ha imparato semplicemente esistendo: maniere perfette, portamento aristocratico, aria naturale da gentiluomo. Cinecittà lo adotta. “Da quel momento in poi – ha raccontato – il cinema francese mi ha dimenticato, ma in compenso sono stato adottato da quello italiano che mi ha trattato come un figlio. Però non ho mai fatto veramente parte del vostro cinema, mi sono sempre sentito un dilettante, nonostante una quantità di ruoli e tante esperienze con i maestri migliori”. Dall’avventuroso Riccardo Freda all’impegnato Giancarlo De Bosio, dall’amico Gianni Puccini (quasi un pigmalione) al popolare Luigi Zampa, trova sempre un ruolo adatto, spesso come “villain” crudele e freddo. Poi il colpo di fortuna nel 1965 con Sette uomini d’oro di Marco Vicario.
Nel ruolo del cervello di una banda di rapinatori, a fianco della bellissima Rossana Podestà e di Gastone Moschin, fa del film il campione d’incassi dell’anno che frutterà anche un sequel. Diventa il suo passaporto per un mestiere che non gli assomiglia ma che lo renderà invece una figura doppia e ricorrente nel cinema italiano: gentiluomo raffinato da una parte, antagonista spietato e crudele dall’altro.
Altra cosa sarà per lui la televisione, strumento di consenso popolare che gli offre nel 1971 la seconda svolta nella carriera: lo convoca Renato Castellani e gli cuce addosso i panni di Leonardo da Vinci nello sceneggiato omonimo. Il suo temperamento si ricongiunse alla fine, 5 anni dopo, con la professione: nei panni del flemmatico portoghese Yanes de Gomera nel Sandokan di Sergio Sollima divenne una vera star e scolpì un’incarnazione salgariana indimenticabile, amata da 30 milioni di spettatori a puntata.
Benché si fosse misurato con il teatro, benché avesse recitato anche per Godard, Comencini, Luigi Magni, Jacques Deray, Dario Argento, Luc Besson, benché avesse vestito da protagonista i panni di preti (Ignazio de Loyola in State buoni se potete), ufficiali (R.A.S. di Yves Boisset), ex-nazisti (Portiere di notte di Liliana Cavani), fu proprio la tv a offrirgli i ruoli migliori.
Giusto ricordarlo almeno in Quo vadis?, Il generale, Elisa di Rivombrosa, L’ispettore Coliandro e perfino I Cesaroni. Ma la sua vera vita era sempre più spesso fuori dal set: passati i 50 abbraccia finalmente la passione per il paracadutismo e verrà ricordato per gli oltre 2000 lanci fin dopo gli 80 anni. Ancora nel 2011 fece l’osservatore in Afghanistan nel contingente italiano: “Parà fra i parà” come ricordava con divertito orgoglio.
Negli ultimi anni si era ritirato quasi a vita privata scrivendo poesie, dipingendo, disegnando i suoi mobili. “Ho costruito con le mie mani cinque case. Nell’ultima – ricordava a 90 anni – un borgo incantato sulla via Cassia in cui ho vissuto con mia moglie Silvia (figlia di Enzo Tortora, madre di due figli amatissimi, scomparsa nel 2022) e con la mia famiglia, non c’è un pezzo di plastica, ma tutti mobili e oggetti in legno che ho lavorato, pezzo a pezzo. Come la mia vita”.
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