Tre domande allo scenografo Dante Ferretti, tra aneddoti, biografie e Oscar (“pochi, troppo pochi”)

"Mi chiama Roberto Rossellini e dice: devi andare in Cappadocia, Pasolini ti vuole come scenografo. Io neanche sapevo dov'era". Una vita di coincidenze e di maestri (fino a diventarlo lui stesso). Intervista dal Pesaro Film Festival

Dante Ferretti ha fatto di tutto per andarsene da Macerata. Si è spostato a studiare a Roma, ma per il suo primo lavoro da aiuto scenografo è stato chiamato a lavorare ad Ancona. Nelle sue Marche ha vissuto l’evento più traumatico della sua vita: il bombardamento della sua casa da cui è stato estratto dalle macerie. In verità, però, quel primissimo aneddoto di esistenza, Ferretti lo racconta col sorriso, ricordando come dopo un giorno era stato tirato fuori dalla sua famiglia, mentre era rimasto protetto e al sicuro sotto un mobile costruito dal padre. “Posso dire che a salvarmi è stato mio padre. La prima cosa che ho detto quando mi hanno trovato? Ciak!”.

Ferretti, scenografo classe ’43, ottant’anni appena compiuti e tre Oscar alle spalle (The Aviator nel 2005, Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street nel 2008 e di nuovo con Martin Scorsese per Hugo Cabret nel 2012), è un cantastorie, al pari dei grandi maestri con cui ha lavorato. Come dimostrano i racconti che vanno dal rapporto con Federico Fellini al battesimo del fuoco con Pier Paolo Pasolini. È Medea il primo film non da aiuto scenografo che ha girato, arrivato per caso, come molte delle coincidenze della sua vita, riportate nella biografia Immaginare prima. Le mie due nascite, il cinema, gli Oscar, pubblicata quest’anno, scritta insieme a David Miliozzi e presentata al pubblico in piazza al Pesaro Film Festival.

“Un mio amico mi ha detto di passare la giornata a Fregene. Voleva andare al mare, a me non interessava. Mi dice ‘Ti passo a prendere’, e alla fine mi convinco. Appena arriva esco di casa, salgo in macchina, ma mi accorgo di non aver preso il costume. Così risalgo le scale e quando apro la porta, in quel momento, squilla il telefono. Rispondo ed è Roberto Rossellini. Mi dice: Dante, devi andare in Cappadocia, Pasolini ti vuole come scenografo. Io neanche sapevo dove si trovava. Allora scendo di nuovo, vado dal mio amico e gli dico: mi dispiace, al mare vai tu, devo prendere un aereo per la Cappadocia”.

Prima dell’arrivo di Dante Ferretti, il set del film di Pasolini era tutto improvvisato. E lo scenografo lo descrive al punto da far venire in mente una delle scene più divertenti di Babylon, pellicola sulla Hollywood classica scritta e diretta da Damien Chazelle, in cui la troupe deve riuscire ad afferrare la luce giusta per girare. “Arrivo e mi fanno: bisogna fare la scena col carretto su cui è seduta Medea. Allora domando: dov’è il carretto? Non c’è il carretto. Mi rispondono che, appunto, devo sistemare l’unica carriola rovinata che hanno. Chiedo quanto tempo ho: dobbiamo girarla subito, prima che cali il sole. Così è stato, mi sono aiutato con dei pezzi di stoffa e del cuoio trovati in altri reparti. La sceneggiatura l’ho letta solamente dopo aver finito, durante la notte”.

Dal dramma di Medea al cinema trasognante di Fellini – in altre occasioni, Ferretti ha raccontato che per La città delle donne ogni giorno il regista gli chiedeva cosa aveva sognato la notte prima, per stimolare la reciproca creazione -, gli incroci incredibili nella vita dello scenografo sono continuati. Proprio l’autore de I Vitelloni e Otto e mezzo lo chiamò per lavorare quando era ancora agli inizi: “Dantino, così mi chiamava, perché non vieni a lavorare per me? Me lo chiese Fellini. La mia risposta? Maestro, me lo richieda tra dieci anni, che se mi brucio subito, la mia carriera è finita prima ancora di cominciare”. Così fu. Passarono gli anni, e i due collaborarono insieme, realizzando ben cinque film – escludendo Fellini Satyricon, in cui non era ancora capo settore.

E se Dante Ferretti racconta “ho dormito con Naomi Campbell”, è perché rievoca un’altra strana coincidenza che lo voleva insieme alla supermodella su un aereo mentre viaggiava in giro per il mondo (dalle Marche fino all’infinito e oltre). Ed è grazie a un salto a Roma con il jet privato di Martin Scorsese che Ferretti convinse il cineasta a girare Gangs of New York a Cinecittà, ricostruendo il quartiere di Five Points, ormai scomparso nella topografia della Grande Mela. Una collaborazione a cui ha dato il via L’età dell’innocenza nel 1993, seppure Ferretti aveva già lavorato a livello internazionale con Terry Gilliam per Le avventure del barone di Munchausen (1988), considerato alla sua uscita il film con “la più bella scenografia mai stata realizzata”. Ma fu The Aviator a portarlo al primo Oscar. Anche quando ormai non ci credeva più.

Tre domande a Dante Ferretti

Agli Oscar 2023 ha tifato per The Fabelmans. Le sarebbe piaciuto lavorare con Steven Spielberg? Ha dei rimorsi su film che non ha accettato?

Sì, avrei voluto. Ma non solo con lui. Penso a Stanley Kubrick. Ci sono autori del passato e autori del presente che mi vengono in mente. Il fatto è che sono davvero molti. E che ormai è inutile guardarsi indietro.

L’ultimo film a cui ha lavorato è Silence (2016) di Martin Scorsese. Quanto è cambiato il lavoro della scenografia nel corso degli anni? Vede questo mestiere sempre più improntato sul digitale?

Oggi viene utilizzato molto, chiamiamolo genericamente, il computer. A me interessa poco. Ciò che mi è sempre piaciuto è costruire. Per me è fondamentale poter fare degli errori mentre si lavora. Perché sbagliando sembra tutto più vero. Ciò che è perfetto, che viene disegnato senza difetti, è finto. Basta guardarsi intorno e vedere che, in realtà, c’è sempre qualcosa che non va. Non ci sono elementi che si legano l’uno con l’altro ed è quello a restituire la verità.

Insieme a sua moglie Francesca Lo Schiavo ha conquistato la prima statuetta degli Oscar nel 2005 per il film The Aviator. È vero che non voleva nemmeno partecipare alla serata? E se non credeva di poterne vincere uno, come ha reagito agli altri due Oscar arrivati dopo?

Né io, né Francesca avevamo intenzione di presenziare agli Oscar. Dopo sei nomination e nessuna vittoria ci sembrava inutile. Eravamo con Martin Scorsese, anche lui candidato per The Aviator, e fu lui a convincerci. Si muoveva sempre con l’aereo privato (“poverino!”, scherza ironicamente Ferretti, ndr) e ha insisto talmente tanto che siamo partiti. Poi Halle Berry, mentre presentava la categoria degli sceneggiatori, fece i nostri nomi. Non ci credevamo nemmeno (“Ci vuole pure prendere per il culo questa qui?” continua a ridere, ndr.). Gli altri due Oscar? Beh non me li aspettavo. Che comunque sono pochi, o no? Undici nomination io, nove Francesca, fanno venti. Abbiamo solo sei Oscar, tre per uno. Troppi pochi, purtroppo (non smette di ridere, ndr.).