Sly, la recensione: il documentario Netflix su Sylvester Stallone è a tratti illuminante, a tratti evasivo

La star è il soggetto di un film di Thom Zimny, che include tra gli intervistati Henry Winkler, Quentin Tarantino e Arnold Schwarzenegger

Solo un paio di mesi dopo aver regalato ad Arnold Schwarzenegger un documentario agiografico di tre ore, Netflix farà uscire Sly di Thom Zimny, un documentario in cui Sylvester Stallone è esattamente candido e introspettivo come il produttore esecutivo Sylvester Stallone vuole che sia.

Con Schwarzenegger, il documentario dava la sensazione di un do ut des per accompagnare la serie dell’ex governatore della California, FUBAR, ma l’attuale serie televisiva di Stallone, Tulsa King, è su un’altra piattaforma e non viene nemmeno menzionata in Sly. Non ce n’è bisogno. Non che, nel quadro generale, Tulsa King avesse cementato il suo posto come parte fondamentale del curriculum di Stallone, ma è solo una delle tante piccole e meno piccole parti della sua carriera e della sua vita che non compaiono in Sly.

In pratica, quando Sly risulta riuscito, è perché Stallone è un osservatore straordinario del proprio lavoro. Quando risulta poco riuscito, è perché Stallone osserva altri aspetti della sua vita con luoghi comuni che sembrano rivelatori, ma che in realtà rappresentano un’evasività che Zimny deve oscurare con un attento montaggio.

Stallone e se stesso

Sly ruota intorno alla decisione dell’attore-scrittore-regista di lasciare la sua opulenta casa di Los Angeles, un santuario della collezione d’arte di cimeli di Stallone, nonché, visto il modo in cui il documentario è girato, una proprietà con un numero sproporzionato di stanze progettate per fissare il vuoto e contemplare la propria carriera. Perché lascia la casa? Ha a che fare con il fatto che Stallone detesta l’autocompiacimento e ha bisogno del ringiovanimento creativo di un cambiamento di location.

Il candore personale di Stallone raggiunge l’apice con la discussione sulla sua infanzia, quando lui e il fratello Frank affrontano – separatamente – il padre violento e, in termini molto più nebulosi, l’eccentrica madre. Accompagnato da scene di Stallone che ripercorre il quartiere della sua giovinezza, Hell’s Kitchen, il documentario getta le basi per il suo precoce rapporto con il cinema come evasione, la sua ammirazione per l’eroismo cinematografico classico – sia il documentario di Stallone che quello di Schwarzenegger danno importanza ai film su Ercole come influenza formativa – e le sue prime difficoltà nel mondo della recitazione. Il film Happy Days – La banda dei fiori di pesco viene discusso in modo approfondito. Il suo debutto nel softcore in Porno proibito non viene menzionato.

Non è che si sentisse il bisogno di un’ora su Porno proibito, ma la sua assenza è indicativa del fatto che quando Stallone vuole parlare di qualcosa, è fantastico, ma la sua versione della sue difficoltà è l’unica che appare in Sly. È un film caratterizzato da frequenti elisioni.

La famiglia e il lavoro

Sul piano personale, ciò significa che l’attore vuole parlare soprattutto della sua famiglia in termini di scelte che ha dovuto fare per dare priorità al lavoro. Ammette i rimpianti e Zimny di tanto in tanto inserisce immagini della sua famiglia, ma siamo abbastanza sicuri che nessuna delle sue tre mogli – due ex, una attuale – venga chiamata per nome; dei suoi figli, solo il defunto Sage viene citato, e per lo più nel contesto di Rocky V. Si tratta di una scelta che non si può biasimare – anche se c’è la possibilità che Paramount+ abbia l’esclusiva sulla famiglia Stallone a causa di, beh, The Family Stallone – ma i tentativi di Zimny di aggirare e modificare la reticenza dell’attore non funzionano.

Probabilmente esiste una versione di Sly che somiglia più a un Sylvester Stallone: il re dei Franchise, in cui Stallone analizza i franchise di Rocky, Rambo e I mercenari, spiegando come ognuno dei film abbia rappresentato la sua vita e la sua visione del potenziale del cinema in quel momento. Perché quando lo fa, è sorprendentemente bravo.

Le “fasi” della carriera di Stallone

Il resto della sua carriera viene ridotto troppo spesso a “fasi”, che si tratti del periodo comico, di cui si pente, o di quello action-star che si esprime a monosillabi. Proprio per via di quell’immagine che il pubblico ha dell’attore, risulta sorprendente la sua capacità di essere intelligente e introspettivo. Altri suoi film ricevono un’attenzione poco più che superficiale: a F.I.S.T. vengono dedicati un paio di minuti come seguito di Rocky; a Cop Land un po’ più di tempo, ma per qualche motivo l’attore lo considera un fallimento. E poi alcuni film vengono stranamente ignorati, come Creed, che ovviamente non considera collegato ai suoi film di Rocky, una distinzione che suona strana.

Frank Stallone e John Hetzfeld si fanno carico della maggior parte del periodo precedente alla fama dell’attore. Henry Winkler e Talia Shire sono lì in rappresentanza dei suoi co-protagonisti. Schwarzenegger appare e dice, quasi alla lettera, le stesse cose che Stallone ha detto su di lui nel suo documentario, il che è carino se avete visto entrambe le pellicola, ma… perché? Comprensibile che a Zimny abbia fatto piacere avere Quentin Tarantino – a quanto pare un fan sfegatato di Happy Days – La banda dei fiori di pesco – e Wesley Morris come osservatori esterni, ma una volta superata la reazione iniziale del tipo: “È bello che Quentin Tarantino e Wesley Morris abbiano sentimenti entusiastici nei confronti di Sylvester Stallone!”, nessuno dei due aggiunge molto alla sua storia.

Arrivati alla fine di Sly, la star si dimostra sufficientemente brava a spiegare l’eredità che lascia, tanto che il documentario riesce a trovare intuizioni efficaci e un certo grado di commozione. Questo nonostante l’attore sia un custode eccessivamente protettivo di quell’eredità, e nonostante l’esitazione del regista a smuoverlo dalla sua narrazione.

Traduzione di Nadia Cazzaniga