Flaminia non è solo Roma Nord. Oltre la commedia, Michela Giraud si dà il permesso di emozionarsi (ed emozionare)

Dagli sketch sulla borghesia capitolina a una più profonda riscoperta di sé, il debutto alla regia della stand up comedian è una storia personale, anche se non autobiografica, riconoscibile e al tempo stesso inaspettata

La geografia sociale di Michela Giraud è solo un pretesto, non serve vivere dentro il Grande raccordo anulare per capire che la Roma nord in cui è ambientata Flaminia, opera prima della stand up comedian, è un luogo-simbolo. Un punto di partenza per raccontare una storia molto personale, che va da un sentimento di estraneità a una sincera riscoperta di sé.

Flaminia De Angelis, la protagonista interpretata dalla stessa regista, ha poco più di trent’anni, tre amiche strette e altrettanto velenose e un fidanzato che la sposa solo per sistemarsi, consapevole di non amarla e di non essere amato. Pochi giorni prima del matrimonio, tuttavia, nella vita di Flaminia torna la presenza totalizzante della sorella Ludovica che, allontanata dalla comunità in cui vive dopo un incidente, scombussola, rompe e ricostruisce ogni equilibrio.

Una storia (quasi) vera

Il bisogno da cui nasce Flaminia, per ammissione della stessa regista, è quello di raccontare temi a lei cari, in particolare il rapporto con la sorella maggiore a cui è stato diagnosticato un disturbo nello spetto autistico. È la storia, non la forma, il punto focale del film. Infatti la grammatica cinematografica resta sempre semplice e funzionale ai personaggi che la abitano o alle loro relazioni. Al centro prende sempre più spazio il rapporto tra Flaminia e Ludovica, molto vicine a Michela e Cristina Giraud nonostante il contesto di una commedia in cui tutto è sopra le righe, almeno fino a un certo punto.

Flaminia ha infatti due passi diversi, due ritmi ben divisi da una scena in particolare che trasforma il film e il suo scopo. È raro infatti che una regista comica riesca a debuttare dietro la macchina da presa con il suo repertorio (Paola Cortellesi con C’è ancora domani ha realizzato una tragicommedia familiare, in fondo) ed è ancora più raro che sia capace di trasformarlo in corsa in qualcos’altro, senza perdere l’identità, l’onestà e la spontaneità.

Antonello Fassari, Michela Giraud e Lucrezia Lante della Rovere in una scena di Flaminia (regia di Michela Giraud)

Antonello Fassari, Michela Giraud e Lucrezia Lante della Rovere in una scena di Flaminia (regia di Michela Giraud). Courtesy of Vision Distribution

L’impronta familiare di Michela Giraud si percepisce, con forza, nei voice over iniziali e nelle brevi scene di presentazione dei personaggi che quasi riflettono, nel linguaggio cinematografico, il suo stile di stand up comedy. Ironico, tagliente e istrionico. Suo, o meglio di Flaminia, è l’unico punto di vista per circa metà film che è quasi un monologo, fino a quando uno scontro con la realtà le apre gli occhi sulla prospettiva di Ludovica. Da quel momento Flaminia prosegue appunto su un doppio binario. Si rivela per ciò che voleva essere fin dall’inizio, una storia di profondo amore fra sorelle, che al tempo stesso diventa lo strumento di liberazione della protagonista da una vita di paure e di apparenze, troppo stretta e soffocante.

L’uso intelligente degli stereotipi comici

Regia e scrittura in Flaminia hanno intenzioni molto chiare. Cercano di portare il tono della commedia verso l’esagerazione per mostrare gli stereotipi su cui si basa, e superarli. Sorprende in positivo la scelta di non farlo con un caratterista come Antonello Fassari, nel ruolo del capofamiglia De Angelis, un chirurgo estetico che asseconda il desiderio di moglie (una divertente Lucrezia Lante della Rovere) e figlia di entrare nell’élite della borghesia romana, ma che in fondo ne è immune al fascino. E splende invece nell’amorevole ruolo di padre.

Al di là della studiatissima e perfetta scelta di Ludovica Bizzaglia, Francesca Valtorta e Catherine Bertoni de Laet nei panni delle amiche-vipere, questo meccanismo di creazione dei personaggi si rivela con l’Alberto di Edoardo Purgatori. Un uomo infedele e inaffidabile, ricco ma controllato dal denaro della famiglia, cocainomane: resta nei contorni dello stereotipo fino alla sua ultima scena, in cui rivela in realtà una grande lucidità e un’assoluta consapevolezza dei suoi limiti e dei suoi doveri. Per farlo e restare credibile serve, senza dubbio, un attore sensibile e attento come Purgatori, che in Flaminia ha avuto anche l’unica occasione di recitare accanto al padre Andrea, compianto giornalista e sceneggiatore a cui il film è dedicato.

Rita Abela, il cuore di Flaminia

Tragicomico, come la vita stessa, è il personaggio di Ludovica (Rita Abela) e il suo rapporto con la sorella Flaminia. Brillante, semplice e disarmante nei suoi ragionamenti, Ludovica semplicemente è. Non ha modo di pensare quale sia il suo riflesso nello specchio degli altri. Rita Abela la porta in scena con un’incredibile delicatezza e con grande rispetto. Riuscendo ad aprire un varco nel suo complesso mondo interiore, fatto sì di mancanze e di cose che non potrà mai a fare come tutti gli altri, ma anche di gesti e attenzioni che nessuno come lei è in grado di dare.

Ludovica è il cuore di Flaminia, tanto del film quanto del personaggio. Abbatte ogni muro della protagonista, ogni armatura e ogni bugia che la protagonista si (auto)racconta. Nel segno di una profonda sincerità, verso sé e verso gli altri, è tutto ciò che come autrice e regista Michela Giraud ha fatto bene a raccontare, emozionando ed emozionandosi.