Orizzonti di Gloria è un film che non viene ricordato abbastanza spesso nella cinematografia di Stanley Kubrick. E nemmeno la sua interprete, l’unica donna: Christiane Kubrick. Il cui personaggio non ha nemmeno un nome.
Probabilmente è la prima opera che si possa definire un capolavoro del cineasta statunitense naturalizzato britannico dopo gli approcci iniziali alla settima arte, dai corti ai documentari (il suo Day of the fight, del 1951, è stato d’ispirazione a Jack Huston, nipote di John, per il film omonimo presentato quest’anno a Venezia), fino ai tre film che segnarono l’inizio della sua carriera (Paura e desiderio, Il bacio dell’assassino e Rapina a Mano Armata).
Qui troviamo il suo primo sodalizio con un attore carismatico e dal forte carattere, Kirk Douglas, anche coproduttore (lo vorrà poi nel costosissimo Spartacus, esperienza che convinse l’autore a trasferirsi in Gran Bretagna e girare solo film su cui avesse il completo controllo). Douglas regala in questo film le prime scene iconiche che mostrano la sua genialità e abilità registica, con movimenti di macchina che rimarranno nella storia, citati da molti colleghi. Una su tutte il piano sequenza nella trincea francese (girato in Germania: in Francia gli negarono i permessi) a seguire il protagonista, che mostra il dolore fisico e la devastazione quotidiana di una guerra di posizione, rifatta allo stesso modo da Kenneth Branagh nel suo Il flauto magico. L’attore e regista britannico fu molto amato dal cineasta, che ne apprezzava l’adattamento dell’Enrico V, più volte da lui citato tra i lavori preferiti dei colleghi.
Chi è Susanne Christian?
Orizzonti di Gloria però è un film che letteralmente cambia la vita a Stanley Kubrick. L’unica attrice del cast, accreditata come Susanne Christian, è in realtà Christiane Susanne Harlan. Il cognome è prudentemente omesso, nel nome d’arte capovolto, perché ricorda Veit Harlan, il regista di Süss l’ebreo, terribile opera di propaganda nazista divenuta proverbiale ed emblematica di quel periodo. Christiane era sua nipote e sorella di Jan, che il cognome invece lo manterrà e diverrà in seguito produttore esecutivo del cognato in Barry Lindon, Shining, Full Metal Jacket e Eyes Wide Shut, nonché regista del documentario Stanley Kubrick: A Life in Pictures.
La scena più iconica del film, però, è il finale. Che rompe ogni stereotipo sulla presunta freddezza di Stanley Kubrick. Una donna, l’unica presente nel film, canta, dopo essere stata sbeffeggiata e insultata con frasi da caserma, una canzone dolente e intensa. Il pezzo è Der treue Husar, lei è tedesca, è una prigioniera di guerra. I soldati francesi ridono sguaiatamente, urlano. Ma poi sentono la sua voce, sentono il suo dolore, sentono che non c’è alcun confine tra le loro sofferenze. E quel rumore, quell’irrisione diventano occhi lucidi, smorfie di commozione, lacrime. Non sono più nemici, ma persone unite da ciò che hanno perso. A partire dall’innocenza.
Un grande amore
Uno dei finali più emotivamente laceranti della storia di Kubrick e del cinema tutto. Di lì a poco, Christiane diventerà la terza e ultima moglie del regista (per lei sarà il secondo matrimonio: dal primo ebbe Katharina, che considerò però sempre il secondo marito della madre come padre) e partecipaerà ad alcuni dei capolavori del marito con i suoi quadri, da Arancia Meccanica (sono nella clinica di riabilitazione dove viene ricoverato Alex, ma anche nella casa dei genitori) a Eyes Wide Shut (in casa dei protagonisti si vedono opere della moglie e anche della figlia Anya, venuta a mancare nel 2009 per un cancro). Vive ancora a St Albans, dove si era ritirata con l’amato Stanley. A 91 anni dirige, insieme alla prima figlia Katharina, una scuola d’arte da lei fondata.
Tutto nacque da quella scena straziante. La più emozionante, nobilmente retorica e strappalacrime del più grande regista della storia.
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