Come (non) si raggiunge El Paraíso. Madri onnipresenti e rapporti ombelicali nel film di Enrico Maria Artale

Vincitrice della migliore sceneggiatura e premio per l'interpretazione femminile a Venezia 80, l'opera del regista e sceneggiatore nasce dalla collaborazione col protagonista Edoardo Pesce, fragile e malinconico nel ruolo di un figlio incapace di staccarsi da chi gli ha dato la vita (e, per questo, può anche toglierla)

Guardando El Paraíso si ha la sensazione di trovarsi di fronte a un’opera dal retrogusto latino. C’è la Colombia di mezzo, questo dice già tanto. C’è la protagonista Margarita Rosa de Francisco, lo spagnolo con cui parla al figlio interpretato da Edoardo Pesce, mescolato al suo romano. Ma è il colpo d’occhio che agisce nell’immediato. Che catapulta in tutt’altra filmografia rispetto a quella del litorale laziale.

La storia è quella: due piccoli spacciatori, madre e figlio, che trascorrono le proprie giornate a ricevere corrieri dall’estero, tagliare cocaina e passare la serata a ballare (salsa, bachata, merengue preferibilmente). Il tema, però, è universale: il cordone ombelicale che non riusciamo mai veramente a strappare, portando dentro di noi i nostri genitori.

E se quell’estetica latina sembra solo suggerita, ha anche un autore che, nel suo piccolo, ha contribuito a portare Enrico Maria Artale a completare, dopo circa sette/otto anni, l’opera presentata in anteprima nel concorso di Orizzonti di Venezia 80 – e vincitrice per la miglior sceneggiatura e miglior interpretazione femminile.

Edoardo Pesce e Margarita Rosa de Francisco ne El Paraíso

Edoardo Pesce e Margarita Rosa de Francisco ne El Paraíso

Un Pablo Larraín a cui il regista e sceneggiatore ha parlato del progetto anni addietro insieme a Pesce nella trattoria del fratello dell’attore a San Giovanni, e che ha spinto l’autore ad insistere sul racconto. Un’idea sorta dalla suggestione del suo protagonista: un mulo che portava con sé le ceneri della madre alla tomba di Elvis. E così la cenere sono diventati grammi di cocaina e l’animale è diventato un uomo mai cresciuto che non riesce a trovare la giusta indipendenza da chi lo ha messo al mondo.

El Paraíso

Commento breve Viscerale
Data di uscita: 06/05/2024
Cast: Edoardo Pesce, Margarita Rosa De Francisco, Maria del Rosario, Gabriel Montesi
Regista: Enrico Maria Artale
Sceneggiatori: Enrico Maria Artale
Durata: 106 min

I colori, anche, sono latineggianti. L’attenzione non è solo nelle musiche, passionali e dai testi tragicissimi anche mentre ci si dimena sulla pista da ballo, ma è su di un’estetica in cui personaggi e pubblico affogano nel blu degli infissi, del portico fuori casa, nelle camicie sbrilluccicose e nei completi vintage. Cuscini, fodere e luci che anestetizzano come fossimo nel liquido amniotico, primordiale. Tornare nel grembo e, lì, restare. Tornare dentro le nostre madri.

Madre da cui Julio (Pesce) non si è mai allontanato, attaccato alla gonnella della donna che lo ha costretto a rimanere un ragazzino. La sessualità dell’uomo è immatura, impacciata. È castrata da un genitore che entra in camera perché non riesce a dormire, e lo interrompe quando è solo, anche mentre si masturba. È piena di senso di colpa. È sentirsi feriti, non sapendo come riuscire a cicatrizzare i graffi. Non attraversando mai una vera adolescenza, rimanendo ingenui, acerbi, confusi. Ed è un attimo che il dispiacere o la litigata diventano poi armi da poter utilizzare, soprattutto per soggiogare chi ci ama.

Fuggire via, verso El Paraíso

È per questo che Julio si ritrova impotente di fronte alla gelosia (edipica, ma anche egoistica e a tratti hitchcockiana) del personaggio di de Francisco – o “madre”, come è semplicemente denominata. L’amore che non è libertà di esprimere i propri sentimenti, ma è impedire di poterne provare altri “all’infuori di me”, per un duo che viene spezzato nel momento in cui nella vita dei protagonisti va ad intromettersi una giovane ragazza, Ines (Maria del Rosario). A Julio si apre un mondo. C’è la possibilità di fuggire (e lo fa da una finestra), di poter svagarsi (scegliendo di ballare su musiche non scelte dalla madre), di poter viaggiare (desiderando di andare in Colombia).

Edoardo Pesce ne El Paraíso di Enrico Maria Artale

Edoardo Pesce ne El Paraíso di Enrico Maria Artale

Ma eccolo il pentimento, il cruccio. Di nuovo il senso di colpa. Il tarlo martellante di un ricatto emotivo da cui è impossibile scappare, faticoso dopo esserne stato vittima per troppo tempo. Fuggirne potrebbe significare raggiungere El Paraíso, l’emancipazione. Ma El Paraíso è anche la terra natale della madre del protagonista e da lei – dalla Madre – purtroppo non si scappa.

Fragile come chi non è mai diventato maturo perché non gli è stato permesso, in contrasto con la fisicità pressante del suo corpo che spesso è stato d’aiuto per la ricerca della presenza scenica che stavolta si curva per chiudere in se stessi, Edoardo Pesce splende di una malinconia che nasce da infanzie tristi e relazioni contorte. Da sogni di indipendenza e obblighi viscerali verso chi ci ha dato la vita, detenendo il potere anche di potercela togliere. Perché ci sono tanti modi per non-vivere, e la morte non è necessariamente uno di questi.

Nel caldo avvolgente de El Paraíso, umido e appiccicoso anche mentre i personaggi si muovono in pieno inverno, Artale mostra che saremo sempre figli in difetto di fronte alle nostre madri, esseri superiori. Nella vicinanza, nei dispetti, nell’amore. Nella pancia in cui sentiamo tutto e in cui tutto inizia, parte e ritorna.