È una normale cena al Lido. Va bene, tanto normale non lo è. E non solamente perché la bufera si è scatenata sulla laguna, come anche sul resto dell’Italia. Ma perché al tavolo accanto, in uno dei locali più frequentati del lungomare veneziano nel periodo della Mostra del Cinema, al tavolo accanto è seduto uno dei migliori cineasti dei nostri tempi (peraltro in compagnia della collega regista e produttrice Ginevra Elkann). Il giorno dopo, l’autore cileno di El Conde, in concorso a Venezia 80, è a disposizione dei giornalisti. “Nel mio paese ancora oggi Pinochet è enormemente divisivo”, spiega Larraín. “Un terzo della popolazione continua a pensare che sia stato un grande uomo. Uno dei motivi è che è rimasto, in qualche modo, impunito. Lui che nel film se la prende perché gli viene dato l’appellativo di ladro e non perché viene considerato un violatore di diritti umani. Sì, questo mio resoconto della storia del Cile altro non è che uno scherzo oscuro”. El Conde, decimo film dell’autore cileno in arrivo su Netflix dal 15 settembre, riprende la figura di Augusto Pinochet, già maneggiato dal regista anni fa. Seppur in altre forme. Umana, ad esempio. Così Pablo Larraín brucia la prima domanda: “Il vampiro è una metafora. Nient’altro che una metafora”.
Poco altro da aggiungere. In un bianco e nero poetico, immaginifico pur riprendendo dalla brutalità della storia reale, il regista mette in scena un succhiasangue con le fattezze del dittatore cileno, interpretato da Jaime Vadell.
Una trilogia non basta, ecco El Conde
Pensare che la sua trilogia, ideale, sul generale e politico, l’aveva già finita. Partita con Tony Manero nel 2008 e proseguita con Post-mortem nel 2010, si era poi chiusa nel 2012 con No – I giorni dell’arcobaleno. Stavolta il cineasta sceglie di isolare l’”assassino” e di mettere in scena il “ladro”.
Un cruccio per il protagonista, perché tutto gli si può dire, ma non che abbia mai rubato. In fondo, moltissime persone rimasero sotto shock quando venne a galla il caso Riggs, in cui venne scoperto che “il conte” aveva decine di milioni di dollari su conti sparsi in tutto il mondo. “È l’avidità che questi personaggi hanno portato nella società, rendendola sfegatatamene capitalista”. Chiesa cattolica compresa, stando alle svolte di El Conde.
Come insegna Stanley Kubrick
L’idea del film nasce da uno scatto di un fotografo argentino che ha messo mantelli lunghi a Augusto Pinochet e ai suoi generali. Renderlo vampiro, per Larraín, significa anche dargli quell’aria “culturalmente pop, che lascia una traccia di memoria”. Non a caso l’autore cita Il dottor Stranamore. Sono l’ironia e l’empatia ad avvicinare la “bomba” di Stanely Kubrick al “vampiro” Pinochet: “La satira può creare la giusta distanza. Pinochet non è mai stato filmato prima, né in televisione, né al cinema. È grazie al protagonista Jaime Vadell che ho deciso di mettergli una telecamera di fronte”.
Che El Conde possa restituire un pizzico di giustizia? “Ci sono migliaia di persone morte e scomparse, centinaia di migliaia che sono state torturate ed esiliate, e non sappiamo chi l’abbia fatto o ordinato. C’è un patto di silenzio all’interno dell’esercito. È una ferita aperta. Ho dei figli e mi chiedono: perché stai facendo un film su Pinochet? A loro sembra così lontano, ma io e la loro madre non la vediamo nello stesso modo. Penso che il cinema sia la più grande macchina del tempo che sia mai stata creata e sono a favore nell’utilizzarla, arricchendola anche di fantasia”.
Pur consapevole che nulla può cambiare. “Parto sconfitto in partenza se credo di fare un film per cambiare le cose. Non è quello che voglio. Non sono cieco, lo vedo che l’estrema destra sta prendendo il controllo in molti paesi, rappresentando un’autentica minaccia. Ma mi riterrò sconfitto solo quando ci impediranno di parlare e di filmare”. Umorismo, ritmo e brillantezza. “Merito dei dialoghi di Guillermo Calderón”, ma anche di una narrativa pazza e divertente, per un film che è contenitore di idee assurde, quasi teatrali. Ma che, ricordiamo, sono “solo” una metafora.
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