“Where is Donnie?”. È la domanda scritta su una lavagnetta appesa sulla superficie di un frigorifero che compare nei primi minuti di Donnie Darko. L’esordio alla regia di Richard Kelly che torna al cinema – il 3, 4 e 5 giugno – in versione director’s cut restaurata in 4K a vent’anni dal suo debutto italiano (era il 19 settembre del 2004, due anni prima era stato presentato fuori concorso a Venezia 61). Una domanda che, a differenza di quella che ha ossessionato gli spettatori di inizio anni Novanta grazie a Twin Peaks – “Chi ha ucciso Laura Palmer?” – una risposta vera e propria non l’ha mai avuta.
Perché al netto del finale apparentemente definitivo, il film è riuscito a diventare un cult anche per la sua natura sfuggevole. Viaggi nel tempo, wormhole, curve spaziotemporali. C’è chi ancora oggi nei forum online cerca di risolvere l’enigma Donnie Darko. Questo nonostante il suo creatore, anni fa, abbia pubblicamente sentenziato che non prenderà in considerazione più nessuna teoria. E pensare che alla sua uscita negli Stati Uniti il film fu un fiasco totale. Era il 26 ottobre del 2001. Poco più di un mese prima gli anni Duemila si erano aperti con un evento che ne avrebbe cambiato drammaticamente il corso: l’attentato alle Torri Gemelle di New York.
Donnie Darko e il legame con le Torri Gemelle
Erano le 8:46 dell’11 settembre 2001 quando la Torre Nord venne trafitta dal Boeing 767 dell’American Airlines. Sedici minuti dopo, alle 9:03, anche la Torre Sud venne colpita da un altro Boeing 767, questa volta della United Airlines. Ma perché gli attacchi al World Trade Center hanno influito sul destino di un piccolo film indipendente di un regista con all’attivo solo un paio di cortometraggi? La risposta è al minuto 10:51 di Donnie Darko, quando la casa del protagonista, dopo un boato, inizia a tremare. Proprio sulla sua stanza è precipitato dal cielo il motore in un Boeing 747. Il ragazzo si è salvato perché poco prima, in quello passato come un episodio di sonnambulismo, era uscito dall’abitazione.
La (sua) realtà ci mostra altro però. “Svegliati. Ti ho osservato a lungo. Sono qui, vieni. Più vicino. 28 giorni, 6 ore, 42 minuti, 12 secondi. Ecco quando il mondo finirà”. È stato Frank, il coniglio gigante e nuovo amico immaginario di Donnie, a farlo alzare. È a lui che quel sinistro animale antropomorfo ha deciso di confidare il destino dell’umanità. Un elemento così cupamente vicino alla realtà che gli statunitensi – e il resto del mondo – avevano appena visto accadere davanti ai loro occhi da portare il film ad incassare poco più di 500 mila dollari al fronte dei 4,5 milioni che erano serviti per produrlo.
Lo zampino di Drew Barrymore
Una cifra esigua per un film di Hollywood messa insieme dalla Flower Films, casa di produzione di Drew Barrymore (che si è ritagliata il ruolo della professoressa di lettere ed è riuscita a coinvolgere anche star del calibro di Patrick Swayze e Noah Wyle) che portò la pellicola, ancora senza distributore, al Sundance Film Festival dove si tenne la prima proiezione ufficiale. Richard Kelly, che all’epoca aveva 26 anni, aveva scritto la sceneggiatura (in soli 28 giorni, gli stessi che impiegò per girarlo) ambientandola verso la fine del 1988. In quei giorni in tv George W. Bush e Michael Dukakis si contendevano la poltrona più importante degli Stati Uniti mentre il presidente uscente, Ronald Reagan chiudeva il suo doppio mandato lasciandosi alle spalle un Paese profondamente influenzato dalla sua leadership.
Donnie – un’allora sconosciuto Jake Gyllenhaal -, è un tormentato adolescente affetto da schizofrenia paranoide. Ha una sorella maggiore, Elizabeth (Maggie Gyllenhaal), e una minore, Samantha (Daveigh Chase). I suoi genitori, Eddie (Holmes Osborne) e Rose (Mary McDonnell), sono amorevoli ma faticano a comprenderlo nel profondo. A scuola gode di scarsa considerazione da parte dei compagni e tende a mettersi spesso nei guai. L’incontro con Frank lo condurrà in un viaggio alla ricerca di una spiegazione per cercare di capire come mai sia riuscito a scampare alla morte. Ma quel tentativo di trovare una risposta lo condurrà in zone ancor più intricate e oscure.
Donnie Darko, Christopher Nolan e la prova del tempo
Ambientato nella provincia americana nei giorni di Halloween, Donnie Darko ha superato la prova del tempo. Nonostante sia incastonato in un decennio preciso e fortemente caratterizzato, a rivederlo oltre vent’anni dopo il film mantiene una sua originalità inalterata. Se volessimo fare un paragone con un altro titolo che tratta, anche se con esiti e toni completamente differenti, tematiche sci-fi potremmo citare Gattaca di Andrew Niccol. Un film, al pari di quello di Richard Kelly, che contiene al suo interno una modernità innata. Dentro il giovane regista ci ha messo un po’ della sua vita e una miriade di citazioni letterarie (da Stephen Hawking a Stephen King) e cinematografiche (da John Hughes a Steven Spielberg).
E forse, grazie ai wormhole, è riuscito addirittura a influenzare Christopher Nolan per Interstellar. Il regista premio Oscar, infatti, vide il film con Emma Thomas nel corso di una proiezione privata organizzata dal produttore sia di Memento che di Donnie Darko, Aaron Ryder. Alla fine della visione Nolan si girò verso di lui e leggenda vuole che bastò un solo cenno del suo volto a convincere la Newmarket Films a distribuire la pellicola.
“Where is Richard Kelly?”
Uno degli aspetti più incredibili che ruota attorno al film e al suo destino è che il suo regista e sceneggiatore da quel 2001 ha diretto solo altri due titoli del tutto dimenticabili, Southland Tales – Così finisce il mondo nel 2006 e The Box nel 2009. Per il resto più nulla. Se non sceneggiature mai diventate film. Un percorso inverosimile per il nome dietro uno dei film più importanti della storia del cinema contemporaneo. Eppure è come se qualcosa si fosse rotto. Se Kelly, così come Donnie, non fosse stato in grado di uscire da quell’ossessione senza inizio e fine.
Non a caso, dopo aver preso le distanze da S. Darko, pellicola del 2009 che ripartiva a sette anni dagli eventi raccontati nell’originale e per il quale non ha avuto nessun coinvolgimento, nel 2017, il regista ha parlato di un potenziale sequel. A ispirarlo l’incontro avvenuto nel 2010 con James Cameron – un altro che di ossessioni ne sa qualcosa – che gli raccontò come la visione lo avesse turbato e lo incitò a proseguire nel raccontare la storia. Dal 2021, però, non ci sono stati più aggiornamenti sul potenziale seguito di Donnie Darko.
Un supereroe di nome Donnie Darko
Sulle note di brani come The Killing Moon degli Echo & the Bunnymen – con quella sequenza iniziale indimenticabile di Donnie assonnato in bicicletta all’alba -, Notorious dei Duran Duran, Head over Helles dei Tears for Fears fino a Mad World di Gary Jules & Michale Andrews, il film – accompagnato dalla score onirica di Michael Andrews – è riuscito a fare breccia per un motivo molto semplice.
Contravvenendo a tutte le regole basiche di uno script di successo (almeno secondo gli standard dei grandi Studios hollywoodiani di fine anni Novanta), Richard Kelly ha raccontato una storia circolare che ruota su se stessa e che se ne infischia del finale felice e consolatorio. Al centro ha messo un ragazzino intelligente quanto “diverso” con problemi mentali attraverso cui parlare di solitudine, paura del futuro, morte e della complessità “dello spettro delle emozioni umane”. Un rompicapo sci-fi mixato con un coming of age amaro e il ritratto di una provincia americana dove, dietro la facciata bianchissima delle case della middle class, si nascondo mostri puritani pieni di segreti inconfessabili. Un film per tutti gli outsider del mondo attraverso cui prendersi la propria rivincita e sentirsi, in qualche modo, rappresentati. Merito di ragazzo con il cappuccio al posto del mantello.
“Donnie Darko. Che razza di nome è? È strano, sembra il nome di un supereroe”, domanda Gretchen, la sua nuova compagna di banco di cui si è innamorato. “Chi ti dice che non lo sia?”.
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