2 giugno 2024. La Repubblica compie 78 anni. Come Michele Placido, che nacque neanche due settimane prima di quel referendum, esattamente nel periodo raccontato in C’è ancora domani, il film di Paola Cortellesi che ha sbancato l’Italia e un po’ anche l’Europa (in Francia è salito fino al terzo posto).
Cosa c’entrano, nella stessa frase, la Festa della Repubblica, il commissario Cattani e l’opera cinematografica italiana di maggior successo degli ultimi anni?
Io lo so, e provo a spiegarvelo. Sono un padre molto legato ai propri figli e non lo nascondo.
Sono ancora piccoli, in quell’età in cui fa tutta la differenza del mondo ciò che gli racconti. Mio figlio Carlo, 5 anni, qualche giorno fa mi ha chiesto di andare a vedere le Frecce Tricolori. Gli ho detto che saremmo andati insieme alla parata del 2 giugno, dove sicuramente sarebbero passate, come sempre, all’inizio e alla fine di quello spettacolo ormai goffo e barocco.
La cosa, chissà perché, mi metteva in imbarazzo, tanto che quando i nonni materni si sono offerti di farlo, sollevato ho lasciato loro il compito.
Caro Carlo, ti scrivo
Orgoglioso e felice. Carlo lo era, mentre mi spiegava di quelli aerei incredibili e dalle scie colorate dei colori della bandiera italiana. E perché io non lo ero? Perché con le divise, da Genova 2001 (ma anche prima, ero un assiduo frequentatore delle curve della mia squadra e in trasferta non ho spesso visto comportamenti limpidi da parte delle nostre forze dell’ordine) ho diversi problemi. E poi ancora di più quando ho seguito, come giornalista, l’omicidio Cucchi.
Eppure ho preso un giorno di ferie per onorare le vittime di Nassiriya in un’età in cui le mie frequentazioni politiche lo sconsigliavano.
Carlo mi chiede perché non sono venuto pure io, con lui e i nonni.
Già, perché?
Perché io in fondo sono anni che faccio fatica a sentire di appartenere a questo paese che non mi somiglia. Lo soffro, mi riscopro patriota a stento con lo sport, mondo che amo e che è ciò che sento più profondamente mio. Eppure le Frecce sono delle eccellenze, hanno a che fare più con l’arte e la performance, che con stellette e mostrine.
Potevo andarci, serenamente. E mi è tornato in mente l’ultimo momento in cui ho pensato al 2 giugno. Ottobre scorso, Festa del Cinema di Roma, C’è ancora domani di Paola Cortellesi. Un film che mi ha entusiasmato ma anche lì, su quel finale così lineare, perfetto, musicale (A bocca chiusa di Daniele Silvestri come inno d’emancipazione, una delle tante idee geniali di quel lungometraggio) ho pensato che ci fosse troppa retorica. E invece no.
Invece no, l’ho detto a mio figlio, era il finale giusto, secco, che serviva. L’ho capito con lui perché Paola Cortellesi ha battuto ogni record d’incasso. O uno dei motivi più importanti, almeno. Ci ha ricordato, l’attrice che ha esordito alla regia, che questo è anche un paese di cui andare orgogliosi. Ci ha ricordato chi siamo, senza finzioni o ipocrisie – mafiosetti fin nei nostri condomìni, in fondo, tra omertà casalinghe e di cortile e un sistema di potere patriarcale arrogante e ottuso -, ma anche capaci di chiamare un popolo di donne a votare.
Vero, lo ha fatto prima di lei Benigni, glorificando la nostra Costituzione. Quella Carta che di quest’anima migliore del paese è simbolo, pietra miliare e, lo speriamo sempre e per questo proviamo a difenderla, a volte goffamente, promessa di un futuro migliore. E infatti Roberto! – c’è chi legge il suo nome con un urlo alla Sophia Loren e chi mente – è diventato un santo laico per questo, così come per qualche mese (lei è troppo furba per diventare icona strumentalizzatile) anche Cortellesi è stata la Madonna Pellegrina della democrazia.
Cos’è il 2 giugno davvero?
Però, però. C’è ancora domani ci ha restituito un sentimento di unità nazionale, un senso di identità che non affonda nel bieco razzismo di ex ministri, nel triviale vittimismo di una premier, nelle ipocrisie di sinistre che non hanno neanche saputo difendere neanche la parità dei diritti dei cittadini (pensiamo a come e quanto poco hanno saputo difendere la comunità LGBTQIA+), nel populismo di chi ha provato a sconfiggere la povertà e poi si è trovato a scoprirsi così simile a quella classe dirigente che disprezzava.
A un popolo di Guido Tersilli e Ivano Tantucci C’è ancora domani ha detto che un italiano vero, per dirla alla Toto Cotugno (sapete che per molti connazionali all’estero è il vero inno nazionale?), può e deve essere orgoglioso di questo paese. Come un bambino che guarda le Frecce Tricolori o come Bruno, due anni e mezzo quasi tre, che si è commosso quando gli ho parlato di Giorgio Ambrosoli. Perché aveva visto il papà piangere, sentendo un bel podcast (Nebbia – Le verità nascoste della storia della Repubblica, su Audible, di Giovanni Bianconi, niente male davvero) che ne ricordava la storia, la vita integra e integerrima e la morte ingiusta.
Cosa c’entrava Michele Placido? Poco meno di 30 anni fa gli ha dedicato il suo terzo film da regista, forse il suo più bello, Un eroe borghese (ispirato dal libro, meraviglioso, di Corrado Stajano) dove recitava nel ruolo di braccio destro di Ambrosoli, il finanziere Silvio Novembre e in cui l’avvocato era incarnato da un Fabrizio Bentivoglio strepitoso.
Come Cortellesi, già attore e simbolo. Paola di una femminilità combattiva e ostinata e contraria al patriarcato subdolo del ventre molle di un paese, Michele di un cinema civile che lo vide maestro in un carcere in Mery per sempre (che avrebbe potuto pure chiamarsi L’attimo fuggito) e appunto Cattani, poliziotto che combatte la mafia nonostante lo stato fino a rimanerne vittima (e profetico, nella realtà) ma anche regista che racconta immigrazione e criminalità, l’Italia che non abbiamo mai amato scorgere con verità.
Entrambi capaci di farlo con un linguaggio popolare, semplice, immediato. Che, ed è un pregio, può essere capito anche da un bambino.
Un altro 2 giugno è possibile
E allora c’è ancora domani per questo paese troppo spesso umiliato dalle stesse istituzioni che dovrebbero difenderlo e difenderci? C’è ancora domani per un cinema che viene dal suo maggio peggiore negli ultimi 15 anni? Sì, se entrambi sapranno guardare senza paura, ipocrisie e neanche vergogna al nostro paese. Alla nostra Storia.
Sì, se sapremo e vorremo raccontare le storie giuste. In una sala cinematografica, come ai nostri bambini.
Cara Italia – sarà un caso che è il titolo della canzone più conosciuta di un altro italiano di cui essere tanto orgogliosi, Ghali? – probabilmente questa lettera è un po’ confusa. Come tutte le lettere d’amore, soprattutto se è la prima volta che le scrivi a chi ami.
Parafrasando John Fitzgerald Kennedy, insomma, smettiamo di chiederci cosa il paese (e il cinema) possa fare per noi. Cominciamo a chiederci cosa fare noi per loro. Anzi e soprattutto: cosa possiamo fare per coloro che sanno già come amarti e spesso non ricambiati vengono dimenticati, emarginati, a volte uccisi. Anche per mano della nostra indifferenza invidiosa e mediocre, chiamiamola sindrome Roberto Saviano.
Se fanno qualcosa per il paese e quindi per noi, smettiamo pure di pensare a quanto convenga loro. Come succedeva a Falcone (e ringraziamo che allora non c’erano i social). Noi lo accusavamo di protagonismo, lui saltava in aria per renderci un paese migliore.
Il 2 giugno smettiamo di far sfilare militari, armi, veicoli corazzati. O che almeno non siano soli. Facciamola diventare una cerimonia di ricordo di santi civili. A partire caro Presidente, da suo fratello. Ricordiamoci che possiamo essere un paese migliore e non di rado lo siamo.
Allora sì che Carlo e Bruno potranno alzare la testa, e non solo per veder passare le Frecce Tricolori. E magari poi andare al cinema, a guardare storie a sentire addosso immagini che possano commuoverli. E, soprattutto, muoverli.
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