Davy Chou racconta il suo Ritorno a Seoul: “I finali consolatori sono ipocriti”

"Quando ho iniziato a lavorare al film non penso ne me rendessi conto, ma ovviamente c'era qualcosa di personale nella storia". Presentato nella sezione Un Certain Regard di Cannes 75, il secondo lungometraggio del regista franco-cambogiano è ora disponibile su Mubi

“Quando ho iniziato a lavorare al film non penso ne me rendessi conto, ma ovviamente era qualcosa di personale. Solo scrivendo il copione ho realizzato che è una storia che mi riguarda”. Davy Chou, regista franco-cambogiano, racconta a THR Roma quanto il suo ultimo film, Ritorno a Seoul, – disponibile su Mubi dal 7 luglio – abbia degli elementi fortemente ancorati alla sua esperienza personale grazie al viaggio fisico ed emotivo della sua protagonista, Freddie, una straordinaria Ji-Min Park al suo esordio davanti la macchina da presa.

Presentato nella sezione Un Certain Regard di Cannes 75 (quest’anno ne è stato giurato), il secondo lungometraggio di Davy Chou, dopo l’esordio nel 2016 con Diamond Island, ruota attorno alla sua giovane protagonista. Adottata, appena nata, da una coppia francese, Freddie torna in Corea del Sud venticinque anni dopo alla ricerca dei suoi genitori biologici. Tra incontri, nuove amicizie e l’ombra di una madre naturale che non vuole farsi rintracciare, la ragazza si trova immersa in una cultura molto diversa dalla sua e intraprende un percorso che la porterà in direzioni del tutto inaspettate.

Nel film l’uso della tecnologia è utilizzato per enfatizzare la mancanza di comunicazione tra Freddie e la sua famiglia biologica. Com’è arrivato a quest’idea?

Il film si basa anche su un’esperienza reale, quando una mia amica incontrò per la prima volta suo padre e sua nonna biologici nel 2008. Notai questa loro forte incapacità di comunicare e connettersi, anche se sentivo da ambo le parti una volontà di conversare. Erano anni che aspettavano di condividere qualcosa e improvvisamente non avevano niente da dirsi a causa della barriera linguistica. Usavano un’interprete ma non si riesce sempre a tradurre esattamente quello che è stato detto, come del resto succede nel film. C’era anche una barriera culturale, fatta di storie che sono così pesanti da non riuscire a superarle, perché viste da prospettive diverse in cui non è possibile trovare un punto di collegamento.

Una scena di Ritorno a Seoul

Una scena di Ritorno a Seoul

Questa difficoltà come l’ha tradotta nel film?

Mi interessava esplorare diverse modalità di questa frustrante incapacità di comunicare e di scambiare messaggi. Modalità che avviene anche dalla realtà e da quello che la mia amica mi raccontava. Il padre le scriveva delle mail in coreano anche se sapeva che non lo capiva. Lei doveva aspettare la traduzione di Google. In questo ci trovo poesia, frustrazione, una sorta di rappresentazione veritiera di quanto sia difficile affrontare queste esperienze. Cercare di non essere confusi e non perdersi nella propria incapacità di tradurre emozioni, sentimenti che ti piacerebbe comunicare. In pratica è il viaggio del film. Come possiamo trasmettere un’emozione, come comunichiamo, come entriamo in relazione. Tutto questo mi aiutava a collegare i due punti: il provare a comunicare e la difficoltà nel farlo.

Utilizza molte musiche e sound diversi che rappresentano varie tappe della vita di Freddie. Facevano parte della sceneggiatura fin dall’inizio?

In parte sì, ma non del tutto. Nel film c’è la musica vintage che ascoltano nei bar, che era già nel copione, e sapevo che ci sarebbe stata anche altra musica. Come quando il padre di Freddie suona il piano. A volte la musica è il mezzo attraverso il quale si trasmettono le emozioni e può aiutare quando non ci si esprime a parole. La figura del padre per esempio non è quella di un personaggio molto loquace. Quando suona forse è il modo migliore per lui di trasmettere, di condividere qualcosa con sua figlia.

E per la colonna sonora originale?

Per molte delle melodie composte da Jérémie Arcache e Christophe Musset è stato nell’editing che ci siamo chiesti quale fosse il miglior posto per la musica e quale fosse la sua importanza, in quale scena sarebbe stata più importante. Mi piace pensare che la musica sia una sorta di alleato per i personaggi, penso sia questa la sua missione. Abbiamo un personaggio molto ribelle, che si rifiuta di inserirsi nello schema che le è stato assegnato. Ma serviva che fosse coraggiosa perché, a volte, è un processo molto solitario dover combattere contro tutti. Fa sentire soli e bisogna essere molto coraggiose. Penso che questo personaggio lo sia, in molti modi. Anche se la gente potrebbe giudicarla come brutale, maleducata. Non è facile fare quello che fa lei. Quindi la musica serve per aiutarla, per dirle “non sei sola, sono qui con te”. Per farle sentire che ce la può fare.

Davy Chou

Davy Chou

Parla di adozione ma cerca di evitare i cliché. Qual’è stata la sfida più grande?

Penso che scrivere le scene della famiglia del padre di Freddie siano state la cosa più difficile perché non conosco quella realtà. Al centro adozioni, invece, ci sono stato, l’ho visitato, ho discusso con gli impiegati. Ho anche visitato molti bar e ristoranti a Seoul quindi conosco l’atmosfera che hanno. Ma non sono mai stato così approfonditamente in una famiglia coreana. Ho ascoltato le storie dei miei amici, ma quando ne scrivi hai sempre paura che non sembri autentica. Mentre ho sviluppato il film mi sono fatto dare consigli un po’ da tutti.

In Ritorno a Seoul fa dei riferimenti alla Storia coreana. Che tipo di ricerca ha fatto?

Quella classica che si fa quando il tema è così legato alla Storia. Quella dell’adozione internazionale e di come abbia costruito un sistema che ha mandato quasi 200mila bambini a vivere all’estero è una questione molto discussa in Corea. L’adozione è presente in molti paesi ma quel numero è abbastanza unico. Dovevo capire da dove si originasse.

E lo ha capito?

Ovviamente la risposta era la guerra di Corea, ma anche le prime coppie negli Stati Uniti che decisero di adottare bambini coreani. Andarono al Congresso per creare accordi specifici con il governo coreano per facilitare il processo. Magari spinti da una buona volontà cristiana: volevano salvare e aiutare dei bambini dopo aver visto un documentario sulla guerra di Corea. Ma la semi-industrializzazione del processo adottivo ha avuto delle conseguenze drammatiche. E la Corea lo ha realizzato solo dopo gli scandali e polemiche che questa ondata di presunta solidarietà creò. Ho dovuto parlarne anche se ho cercato di non sopraffare il pubblico con troppe informazioni. Non è un documentario sull’adozione ma è la storia di un singolo personaggio, il ritratto di una donna che non è definita solo dal fatto di essere stata adottata ma è anche una donna moderna, che ha la sua vita e i suoi problemi.

Il suo film parla della ricerca di identità di Freddie. È qualcosa che ha affrontato anche lei, nella sua vita?

Sì. È strano che a volte si possa essere come cechi verso se stessi, non realizzando la vera natura della propria situazione. Quando ho iniziato a lavorare al film non penso ne me rendessi conto, ma ovviamente era qualcosa di personale. Solo scrivendo il copione ho realizzato che è una storia che mi riguarda. Sono nato in Francia, sono andato in Cambogia, il paese dei miei genitori, a 25 anni. E nello stesso modo di Freddie: innocente, naïf, con uno spirito libero, pensando di andarci per qualche mese per poi tornare in Francia senza che il viaggio avesse effetto su di me. Stavo mentendo a me stesso, non mi rendevo conto di quello che mi stava succedendo.

Cos’è successo dopo quel viaggio?

Per gli ultimi tredici anni ho diviso la mia vita tra Francia e Cambogia, dove ho prodotto e diretto film. Ora ci vivo, non so per quanto, ma so per certo che quella prima visita ha avuto grandi conseguenze sulla mia vita e la mia identità. Non mi piace molto pensare in termini di identità ma direi che il modo nel quale mi definivo quando andai per la prima volta in Cambogia è uguale a quello di Freddie quando alla prima persona che glielo chiede dice: “Sono francese”. Nel corso della mia vita, come per lei, si sono sviluppate molte complessità rispetto a quella singola, facile, risposta. Bisogna capire che c’è un cambiamento, un’evoluzione della definizione di se stessi attraverso le azioni, il modo in cui vivi, le persone che incontri. Queste tematiche sull’identità che cerco di rappresentare nella storia di Freddie sono qualcosa che ha molto a che vedere con la mia vita privata.

Una scena del film di Davy Chou

Una scena del film di Davy Chou

La performance di Ji-Min Park è impressionante. Come avete lavorato per raggiungere quel livello di intensità?

L’intensità è qualcosa che le viene naturale. Era in parte quello che mi ha colpito quando l’ho incontrata per la prima volta al casting. Il suo personaggio era stato scritto così, in nessuna scena Freddie è rilassata o lascia che le cose succedano. In ogni singola scena si deve comunicare una qualche emozione estrema. L’intensità molto particolare che Ji-Min porta sullo schermo è addirittura maggiore di quella che ho scritto. Mentre giravo i primi piani sono stato sopraffatto dalle emozioni che esprimeva in modo molto minimalista. Non esprime nulla sul viso ma puoi sentire il torrente di emozioni, la rabbia e allo stesso tempo la fragilità che prova. L’uso dei primi piani viene dal comprendere che quel volto, che è uno spettacolo a sé, avrebbe davvero colpito il pubblico.

Nel film non c’è un finale consolatorio. Quanto è stato importante per lei rimanere fedele alla realtà?

Dipende da cosa chiamiamo realtà. Se ne parliamo di realtà nei termini della traiettoria finale di quel viaggio, per me era importante essere fedele a quello che sentivo per un personaggio del genere alla fine di un racconto che copre un arco di otto anni. Ho pensato che scrivere un finale consolatorio, come ne ho visti in moltissimi altri film, magari sarebbe stato compatibile con la storia ed era quello che il pubblico avrebbe voluto, ma per me sarebbe stato da ipocrita.

Perché?

Perché ho cercato di fare un film che catturasse la reale complessità di questo processo e della persona che lo vive. E quindi pensare che alla fine trovi la vera risposta che stava cercando sarebbe sembrata una falsità. Non è un finale felice, ma neanche completamente tragico. Almeno non penso. C’è tristezza nel finale ma c’è anche comprensione da parte di Freddie. Che è la stessa cosa che pensavo mentre scrivevo il film, il fatto che forse non esiste la risposta definitiva. Non si può essere completamente in pace con se stessi ma almeno puoi comprendere che non avrai mai la risposta definitiva. E questo va bene, andrai comunque avanti. Freddie, in un certo senso, ha il coraggio di continuare a camminare.