Ritorno a Seoul, la recensione: Ji-Min Park alla ricerca dell’identità perduta

Un film asciutto nella scrittura quanto estremamente commovente. Davy Chou parte da una storia vera per realizzare una pellicola che parla di pezzi mancanti, intrecci culturali e delle direzioni inaspettate che la vita ha in serbo per noi

“Quante notti intende restare?”. Freddie (Ji-Min Park), venticinquenne francese di origine coreana, dopo che il suo volo per il Giappone viene cancellato all’ultimo minuto, si ritrova in un piccolo albergo della Corea del Sud. Da qui parte il viaggio, fisico ed emotivo, della protagonista di Ritorno a Seoul alla ricerca della sua identità perduta.

Con sé la ragazza ha una vecchia fotografia di lei bambina in braccio a una donna. Vuole scoprire se quel volto che ha osservato per anni è della madre biologica che molto tempo prima l’ha data in adozione.

Ritorno a Seoul, un film asciutto e commovente

Davy Chou parte dalla storia vera di una sua amica – già al centro di Golden Slumbers, documentario del 2011 in cui il regista ha seguito le tappe che l’hanno portata a rintracciare la sua famiglia d’origine – per realizzare un film che parla di pezzi mancanti, intrecci culturali e delle direzioni inaspettate che la vita ha in serbo per noi.

Presentato nella sezione Un Certain Regard di Cannes 75 (della cui giuria presieduta da John C. Reilly il cineasta fa parte quest’anno), Ritorno a Seoul è un film asciutto nella scrittura quanto estremamente commovente. Freddie è una giovane donna sfrontata e apparentemente sicura di sé. “Posso eliminarti dalla mia vita con uno schiocco delle dita” dice al fidanzato. Eppure il vuoto legato a quell’abbandono, con tutti gli interrogativi che si porta dietro, la tormenta.

Una questione di comunicazione

Primi piani, dettagli strettissimi, movimenti di macchina eleganti, una fotografia vivida. Tutto in Ritorno a Seoul è pensato per amplificare le emozioni. Davy Chou, inoltre, utilizza la musica come elemento narrativo regalandoci più di una sequenza incantevole.

Puntellando il film di riferimenti alla guerra di Corea – e le sue conseguenze sociali – e alla differenza abissale tra la cultura coreana e francese, il regista utilizza la tecnologia per sottolineare i problemi di comunicazione tra Freddie e i suoi veri genitori. Tra un padre biologico che parla una lingua che lei non capisce, messaggi, videochiamate e mail, Ritorno a Seoul sottolinea l’impossibilità per la sua protagonista di rimettere ogni pezzo del puzzle della sua vita al posto giusto.

E forse è questo il merito più grande del film. Ricordarci che non sempre tutto necessariamente si risolve. E che forse certi vuoti o mancanze ce li porteremo sempre dietro. Ma anche che, nonostante tutto, la vita trova sempre un modo per farci crescere. Magari facendoci salire su un aereo che ci porterà in una direzione del tutto diversa da quella che avevamo immaginato.