Skull and Bones, la recensione: il videogioco piratesco online di Ubisoft è vivo. Ma è arrivato troppo tardi

Dopo uno sviluppo che definire travagliato è un eufemismo, l'esperienza marittima realizzata dal team di Singapore risulta vecchia per il panorama attuale, ma anche rispetto al passato della software house

Cosa farsene di un pirata ubriaco? Ma soprattutto, cosa farsene di Skull and Bones? Il nuovo videogioco piratesco di Ubisoft Singapore, approdato finalmente sul mercato dopo anni di sviluppo, è un’esperienza che lascia l’amaro in bocca, qualche bel momento, e poi la voglia di giocare ad altro.

Ciò che è arrivato ai giocatori a metà febbraio, infatti, sembra un naufrago piuttosto che Skull and Bones, quello che rimane dopo il calvario affrontato durante la produzione: un miracolo, l’antico vaso che andava portato in salvo. Il gioco è vivo, e questa è di per sé una buona notizia. Ma è fermo a metà degli anni Dieci del Duemila, purtroppo. Un’opera che, nel panorama attuale di videogiochi, non è solo una formula già vista, ma persino eguagliata e poi superata.

Durante le traversate marittime, con l’opzione di cambiare angolazione della telecamera e quindi avere anche una visuale in soggettiva, è impossibile non pensare incessantemente a quanto quest’esperienza nei mari indiani ricordi – primo tra tutti – l’epopea piratesca di Edward Kenway in Assassin’s Creed Black Flag (sempre di Ubisoft), ma anche la chiassosa cooperativa di Sea of Thieves di Rare.

Skull and Bones, un mal di mare

Skull and Bones propone un’avventura a mondo aperto abbastanza canonica quanto dispersiva: pirati che fanno i loro interessi mentre saccheggiamo le navi dei colonialisti. È possibile potenziare la propria imbarcazione, personalizzarne l’estetica, attaccare i fortini e sfidare giganteschi mostri marini, in un’ambientazione mista tra realismo e fantasy storico.

La gran parte dell’azione si svolge in mare, e sono pochi i punti in cui è possibile attraccare e avere delle sezioni di gioco sulla terra ferma, che comunque sono piuttosto piatte: a volte si deve cercare un tesoro (ma in aree molto limitate e con enigmi poco elaborati), oppure si deve incontrare il mercante di turno, il pirata che controlla un’isola, prendere missioni e poi rimettersi in mare.

Nessun combattimento all’arma bianca, sciabolate o coltelli tra i denti come dei lupi di mare. Anche durante i saccheggi e gli arrembaggi, questi si risolvono con un breve filmato, e nulla di più.

A conti fatti l’esperienza è troppo frammentata, richiamando solo nella struttura il genere MMO (massive multiplayer online) simil The Division (sviluppata da Massive e pubblicata da Ubisoft), che ha fatto certamente la fortuna della big tech parigina, ma che non si adatta a ogni occasione: non esistono formule fisse (per fortuna).

Skull and Bones

Skull and Bones. (Courtesy of Ubisoft)

Un Black Flag che non ce l’ha fatta

Diversamente da Skull and Bones, Black Flag – uscito nel 2013 – permetteva un’esplorazione molto più libera dell’atollo caraibico, con città “vive” ed esplorabili, e le missioni anche a terra con la possibilità di usare tutta l’anima action del franchise. Ma non solo, era anche possibile esplorare i fondali, in diversi punti. È stato uno dei capitoli più rivoluzionari della storia del franchise, che all’esperienza classica e anti-autoritaria di Assassin’s Creed ha aggiunto un gameplay completamente nuovo, ma perfettamente in linea con il tema e la filosofia del gioco.

Un’esperienza che, nonostante gli undici anni sul groppone, risulta decisamente più completa di Skull and Bones, che ha dovuto fare i conti con la componente online, influenzando drasticamente tutto il design. E non lo ha fatto in bene, perché il videogioco di Ubisoft si trova a competere in mari difficili, con Sea of Thieves, uno dei successi pirateschi per eccellenza, che è stato in grado di costruire uno stile di gioco nella maniera meno individualista possibile, impegnando i giocatori e le giocatrici alla gestione di una sola nave, con una persona indicata ai cannoni, un’altra alle vele, e un’altra al timone, ma con movimento libero e non prestabilito dal gioco stesso: autorganizzato, cooperativo per definizione.

Insomma, l’opera di Rare è un’esperienza piratesca al 100%, con una grande esplorazione delle isole, enigmi intriganti, battaglie a cannonate e forzieri traboccanti d’oro. E anche un tocco fantasy, con il classico Kraken o il megalodonte pronti a banchettare con lo scafo dei giocatori.

Skull and Bones

Skull and Bones. (Courtesy of Ubisoft)

Trascendere la noia

In Skull and Bones, invece, il personaggio creato dai giocatori è capitano di una nave, e gli altri giocatori hanno la loro, ognun per sé. Dozzinale, ripetitivo e poco ingegnoso, l’ultima fatica di Ubisoft trascende la noia, portando anche la navigazione a essere elemento evitabile, attraverso i tanto amati “viaggi rapidi”.

Ciò non vale per tutti i luoghi della mappa, s’intende. Ma il controllo dell’imbarcazione, punto cardine del gameplay, dopo poche ore di gioco stanca e manca di attrattiva e dinamicità.

È rilassante? Si, troppo. Infatti Skull and Bones concede qualche bello scorcio, e alcuni dettagli – soprattutto nell’animazione dell’acqua (non quelle facciali), qualche momento iconico con la ciurma che canta all’unisono canzoni piratesche. E poi si conclude l’ennesima missione, si torna a navigare, si prende un’altro incarico, e così via. I mari non sono mai stati così poco affascinanti. Benvenuto Skull and Bones, sei in colpevole ritardo.

Per la stesura di questo articolo è stata provata la versione Xbox Series S di Skull and Bones