Maria di Jessica Palud, ispirato alla vita tormentata di Maria Schneider, soprattutto dopo aver recitato nell’Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, è sicuramente uno dei titoli più attesi e discussi di questa edizione del Festival di Cannes. In cartellone nella sezione Prémiere, uscirà in Francia il 19 giugno. Nel cast, oltre alla bravissima Anamaria Vartolomei nel ruolo di Maria e Matt Dillon in quello di Marlon Brando, ci sarà anche Giuseppe Maggio che interpreta il grande cineasta italiano.
Il film racconta la storia della sfortunata attrice a cui il film di Bertolucci ha dato enorme popolarità ma anche tanta infelicità e problemi per via della famosa scena in cui Paul (Marlon Brando) impone alla giovane Jeanne (Maria Schneider) del brutale sesso anale utilizzando il burro della colazione come lubrificante.
Una scena volutamente non descritta nel copione e imposta dal regista agli attori per preservare la loro naturalezza nell’interazione attoriale. Per stessa ammissione, molto tardiva, del grande autore italiano.
“Credo che non sia necessario far vivere un certo tipo di emozioni in scena se l’attore è preparato e se è in grado, mediante la sua preparazione e la sua arte, di trasmettere le stesse emozioni” ci risponde Giuseppe Maggio, 31 anni, attore romano, circa il comportamento del regista nei confronti di Schneider, e che nel film Maria vestirà proprio i difficili panni di Bernardo Bertolucci.
Quindi, in un certo senso, condivide il trauma vissuto da Maria Schneider per quella scena?
Credo che sicuramente sia stato traumatico per lei. Ci sono, però, diversi aspetti che si sono poi andati a sommare, tra cui la violenza fisica messa in atto da Marlon Brando. Perché è lui che alla fine l’ha bloccata e immobilizzata.
Insomma, non bisogna neanche dimenticarsi del fatto che un attore di quel calibro poteva dire no, non mi interessa fare una cosa del genere.
Maria Schneider accusa infatti entrambi, sia il mandante che l’esecutore.
Ci sono tantissimi aspetti, e anche di questo parla il film, che ruotano intorno a tutto questo. Il fatto che lei sostenga che Marlon Brando e Bernardo Bertolucci, grazie a questo film si siano comprati appartamenti e a lei sì e no è stato dato un rimborso spese. Loro due sono stati candidati all’Oscar, lei no. Quindi diciamo che è tutto, anche il contorno, che ha determinato questo abuso a 360 gradi.
Bertolucci stesso ha detto: io mi sento colpevole di tutto questo. Ammettendo comunque che in quella situazione una colpa l’ha avuta.
Oggi trovandosi di fronte a un regista come Bertolucci che “ha trattato gli attori in quel modo”, cosa farebbe?
Dipende. A me piace molto affidarmi ai registi con cui lavoro, e sono un attore che ha molta fiducia nella categoria. Voglio pensare di avere intorno a me attori preparati.
Che idea si è fatto di Bernando Bertolucci?
La valutazione artistica l’avevo, chiara, anche prima di fare Maria. Ovviamente ho cercato di documentarmi il più possibile, soprattutto su quello che c’è stato prima delle riprese di Ultimo Tango a Parigi o immediatamente dopo. Ricercando ho trovato anche cose interessanti relative alle fasi successive della sua vita, tra cui un’intervista che lui ha rilasciato quando era più maturo.
Era in lingua inglese: gli viene chiesto della controversa “scena del burro” e lui risponde: “Mi sento in colpa, ma non me ne pento”. Non aveva detto a Maria Schneider che sarebbe stato utilizzato il burro per realizzare quella scena, perché voleva che vivesse realmente quelle emozioni e che non recitasse.
Quindi ho deciso di partire da questa sua affermazione, da attore, senza giudicare in nessun modo. Ho cercato di vivere e motivare tutto questo, giustificare in qualche modo le sue scelte. Giuste o sbagliate che siano.
Questa è la visone dell’attore. Ma quella sua personale?
Come attore non posso effettuare un lavoro di giudizio perché andrei a recitare con il freno a mano tirato. Ho immaginato un ragazzo di 30 anni, molto ambizioso, molto determinato, che vive in qualche modo un’eredità difficile da sostenere.
In fondo è il figlio di Attilio Bertolucci, un grande poeta. Io non sono figlio d’arte, però immagino che per un figlio d’arte avere questa pressione addosso non è sicuramente facile, così come riuscire a trovare il proprio spazio nel mondo. Si cerca in qualche modo di essere ancora più determinati, ancora più convinti delle proprie idee.
Quindi?
Trovo sia stato pure figlio del suo tempo, di un momento rivoluzionario e di transizione che voleva attaccare il sistema borghese. E la mortificazione dei corpi sicuramente è una strategia per attaccare la società borghese, perché tende a venerarli. Ma questo non parte da Bertolucci, il Living theater ne è un esempio lampante.
In Italia, lo stesso Marco Bellocchio fece un film rivoluzionario come I pugni in tasca colpendo la famiglia borghese.
Bertolucci, prima di Ultimo tango a Parigi, realizzò Il conformista, anche quella una storia che voleva essere di rottura rispetto al perbenismo e all’ipocrisia. Una cosa interessante che secondo me bisogna sottolineare, pure se può sembrare inopportuno, è un parallelo ardito ma che mi è spesso venuto in mente sul set.
Dica pure.
Io penso a uno dei più grandi, se non il più grande padre del cinema mondiale, l’americano, David Griffith, fondatore in particolare del montaggio alternato. Ad un certo punto realizza un film, quello che gli diede grande celebrità: Nascita di una Nazione. Questo film è un’apologia del Ku Klux Klan contro gli afroamericani: c’è una famosa scena di una cavalcata del Ku Klux Klan, con un sottofondo eloquente: la Cavalcata delle Valchirie. Un film razzista, ma che va sicuramente contestualizzato.
Oggi tutto questo sarebbe impossibile da realizzare?
Certo, e meno male. Voglio dire, la specie umana in questo senso ha fatto tanti passi avanti. Però bisogna poi voltarsi indietro e vedere che ci sono state purtroppo tante situazioni simili a questa nella storia dell’arte.
Lei è d’accordo con la cancel culture?
Io non sono d’accordo. Credo che sia importante comprendere, così da non commettere di nuovo gli errori del passato. La storia è ciclica, quindi è bene essere sempre in allerta da questo punto di vista; ma sono assolutamente contrario, perché i fatti vanno visti e analizzati in ogni loro angolazione, temporale e non solo secondo la morale odierna.
Banalmente, ripeto, il montaggio cinematografico è stato creato da Griffith. Va studiato, contestualizzato, e allo stesso tempo bisogna capire che quel tipo di tematiche giustamente non possono essere più affrontate. Non in quella maniera.
Non teme il ritorno di ideologie del passato? Una parte del nostro paese teme il ritorno del fascismo.
Io credo che la cosa importante sia proprio il discorso della cancel culture. La storia è ciclica: aver ben presente che cos’è, cosa è stato, cosa ha determinato, quindi conoscere è un grande antidoto. Allora, a prescindere dal dire torna, non torna, potrebbe, non potrebbe, l’importante è conoscere per evitare che avvenga.
C’è un qualcosa che l’ha aiutata a calarsi meglio nel personaggio di Bertolucci?
Per me un aspetto importante era l’ego del personaggio. Nel periodo in cui giravo mi ricordo che feci un sogno, sognai di avere un mattone sopra lo sterno. Mia sorella mi disse, guarda che è il tuo ego, devi semplicemente spostarlo. Ma era strano, perché era proprio il momento in cui io stavo affrontando l’ego di questo personaggio.
Anche la decisione di prendere qualche chilo è stata importante, sono ingrassato leggermente per questo ruolo. Nel movimento mi ha dato una morbidezza diversa, e anche nella gestualità. Bertolucci gesticolava molto con le mani, quasi come un direttore d’orchestra.
Matt Dillon e Anamaria Vartolomei hanno avuto la possibilità di studiare e in seguito replicare le scene dal film orginale. Mentre a lei è toccato far vedere che cosa succedeva dietro le quinte di quel film, senza alcun riferimento. È stato difficile?
Sì, è stata una grande sfida, anche perché sono l’unico che realmente non recita nella sua lingua: con Anamaria recito in francese, e con Matt recito in americano. Sicuramente è stato stimolante. Poi, in particolare, c’è un’intervista che Bertolucci ha rilasciato quando aveva 30 anni, insieme a Trintignant con cui ha fatto Il conformista. Credo di averla ascoltata qualche centinaio di volte, ogni sera prima di andare a dormire, per entrare in quel suono, in quel ritmo lento. Nonostante i suoi 30 anni, è un modo molto maturo di parlare.
Quell’intervista sicuramente è stata una chiave per entrare nel personaggio e anche per creare una contrapposizione. Secondo me lui era animato da un vortice costante che si contrapponeva a una forma invece più pacata e più modulata.
Chiudiamo il capitolo Bertolucci, qual è il suo film preferito e perché?
Sicuramente Novecento, perché è un film molto italiano. Lo rende in qualche modo pari, sebbene autentico, ai più grandi film internazionali, perché si percorre uno spaccato del nostro Paese importante: alla fine, è la storia del mondo che cambia negli occhi di due ragazzi.
Le sarebbe piaciuto vivere in quell’epoca?
In un certo senso la sto vivendo ancora, perché la serie che sto girando adesso è ambientata negli anni Settanta. Sono quasi due anni che ho a che fare con un mondo molto diverso rispetto a quello di oggi. Ed è affascinante sotto tanti punti di vista perché è in qualche modo il mondo delle prime volte, un mondo nuovo, perché prendeva le distanze rispetto a quello che l’aveva preceduto. Siamo, sulla scia del Sessantotto, che ha cambiato molto la società: quella di oggi, che noi conosciamo, è figlia di questi cambiamenti.
Che cosa l’affascina di quel periodo?
Bertolucci stesso aveva realizzato un film nel 1964 che si intitolava Prima della rivoluzione, dove ha utilizzato una frase molto romantica. L’ha presa in prestito, non era sua, diceva che solo chi ha vissuto gli anni prima della rivoluzione ha conosciuto la dolcezza del vivere.
In effetti, se torniamo al Sessantotto troviamo anni di grande rottura, di violenza nella comunicazione, nel linguaggio, nel pensiero. Una violenza, però, che in qualche modo è stata necessaria per arrivare a progredire per quella che è la libertà individuale.
Tante battaglie sono state portate avanti negli anni Settanta: penso al divorzio, ma anche in generale al femminismo. Sono degli anni affascinanti, che sicuramente mi sarebbe piaciuto vivere – senza dimenticare anche i lati negativi, come gli anni di piombo.
Ci parla di questa nuova serie che sta girando?
Si intitola Mrs. Playmen, la regia è di Riccardo Donna con Carolina Crescentini e Filippo Nigro. Racconta la storia della famosa rivista Playmen. Secondo me è una grande scommessa di Netflix. È la storia della sua editrice, Adelina Tattilo, interpretata da Carolina Crescentini, una donna degli anni Settanta che ha combattuto per riuscire a trovare la sua strada senza imposizioni, senza combattere, rischiando, perdendo ma poi rialzandosi e vincendo.
Ha portato avanti un messaggio di liberazione del corpo maschile e femminile, non si è limitata a raccontare l’erotismo ma la cultura e la società del tempo. Sono molto legato a questa serie, perché interpreto un personaggio fluido, che a suo modo porta avanti una serie di valori, di libertà sessuale, che ai tempi non erano scontati.
Oggi è molto più facile fare l’attore “fluido” rispetto a prima, non c’è più la paura di essere etichettati?
Sicuramente, perché sta cambiando la società. Si sta andando in una direzione diversa, migliore e quindi sicuramente oggi tante persone hanno anche meno paura di raccontare, del giudizio altrui. Parlo non soltanto di attori ma anche di registi, di sceneggiatori, non so se è più semplice perché poi le cose dipendono da come le racconti perché se vengono dal profondo non è mai semplice, si parla di sentimenti umani. Ma il giudizio ora è differente, almeno quello sociale e culturale.
Che differenze ha trovato tra l’Italia e la Francia in termini di produzione?
Prima di questo film, l’anno prima, avevo recitato in una serie in Francia su Brigitte Bardot e diciamo che non ci sono grandi differenze. Così come in Spagna, dove ho fatto Ballo Ballo, nel 2020, un musical dedicato a Raffaella Carrà, anche lì non ho trovato differenze. Al di là delle dimensioni del progetto, ma è quello accade ovunque.
Se in Italia lavori per una grande produzione, in un grande film, in una grande serie, vivi la quotidianità del set al meglio. Ti vengono dati gli strumenti per lavorare al meglio, per fare grandi cose, per provare, per improvvisare. La serie che ho fatto in Francia era più televisiva, infatti è uscita su France 2, mentre il film è più autoriale.
In quest’ultimo c’è stato un rapporto diverso soprattutto con la regista, un rapporto che è diventato personale, quasi viscerale. Poi, intendiamoci, ho lavorato con un candidato all’Oscar come Matt Dillon, con Anamaria Vartolomei che ha vinto già il César come miglior promessa del cinema francese e con Jessica Palud che ha vinto un premio a Venezia, il che ha reso il set qualcosa di unico.
Perché ha deciso professionalmente di emigrare?
Ho solo deciso di ampliare un po’ le possibilità. Avere l’opportunità di lavorare in Francia, in Spagna, in America è stimolante e permette di avere un ventaglio più ampio di scelte, no? Poi ho girato un po’ il mondo, perché ho fatto degli studi a Parigi, alla Jacques Lecoq, a Londra, alla Royal Academy, e l’idea di spostarmi mi ha sempre affascinato.
Alla fine, il lavoro dell’attore ti permette di evolverti giorno dopo giorno, e più ti sposti, più vedi, più osservi, più apprendi, più cogli, più cresci professionalmente e come persona.
Dove vive adesso?
A Roma. Sicuramente queste esperienze sono state importanti, però è innegabile che la mia carriera sia soprattutto italiana.
A proposito di carriera, la sua attraversa un po’ tutti i generi. Alto, basso, melò, film di denuncia: inizia con Amore 14 di Federico Moccia però poi interpreta Giusva Fioravanti nel film Bologna due agosto: I giorni della collera. Non vuole essere etichettato?
È una cosa voluta, che inseguo e che non mi è riuscita sempre nel miglior modo. Non parto con l’idea di avere un talento straordinario, magari le mie qualità migliori sono state la perseveranza e la voglia di riuscire. Ci sono ragazzi molto giovani che puoi mettere su un set, e sono già straordinari: ecco, questo non era il mio caso.
Ho iniziato a lavorare senza aver frequentato una scuola; per questo, se riguardo quello che ho fatto, un po’ mi vengono i brividi. Da un altro punto di vista, però, mi dà molta forza, perché sono molto autocritico con me stesso.
Partire da dove sono partito io, con le capacità scarse che avevo, e comunque riuscire a seguire un percorso internazionale, cosa che sto facendo, è un motivo di grande soddisfazione. È frutto di tanti sacrifici, di una perseveranza, di tanto impegno, di un’infinità di no.
Il no che le ha fatto più male?
Ce ne sono stati tanti. Uno anche molto recente, una serie che uscirà su Netflix, ma se avessi fatto quel progetto non avrei potuto interpretare Bertolucci in questo film.
Ha recuperato poi con la serie che sta girando adesso e sempre per Netflix.
Esatto: se uno non si abbatte ma cerca sempre di rialzarsi, alla fine trova delle strade per arrivare dove vuole. Per me questo è importantissimo: io non sono nessuno, ma se nel mio piccolo posso trasmettere un messaggio, un monito a chi vuole fare questo lavoro è quello veramente di non abbattersi. Una soluzione si trova e si troverà sempre.
C’è stato un momento complicato in cui io faticavo anche a trovare delle opportunità lavorative e mi sono messo in discussione ancora di più e ho stravolto quella che era la mia quotidianità dedicandomi al 100% a ciò che amo, fare l’attore.
Da quando mi sveglio a quando vado a dormire ci metto tutto quello che ho, anche facendo delle scelte difficili, a volte dei salti nel buio: ho cambiato agenzia dopo tanti anni perché mi dovevo mettere alla prova, e questi progetti infatti li ho presi con il mio nuovo agente. Alla fine, rischiare a volte serve.
Il sì di cui va più fiero?
La serie su Playmen.
È felice in questo momento?
Molto, moltissimo, è uno dei momenti più gratificanti. Perché ho una donna che amo molto al mio fianco e perché…
Fa il suo stesso lavoro?
È la più grande attrice senza palco. Questa è la definizione che mi piace dare di lei. Non fa questo lavoro, quindi per questo è senza palco, ma è straordinaria nel recitare. Ho vinto la parte di Bertolucci perché ho provato a lungo con lei le scene.
Sono molto contento perché sento di avere intorno a me anche un team straordinario di persone che hanno sposato il mio progetto, non soltanto Daniele Orazi, il mio attuale agente, ma anche Elena Tosi, il mio nuovo ufficio stampa e Francesco Vivetti, il mio manager a Milano, una persona che mi segue ormai da tantissimi anni e che amo veramente molto perché ha creduto in me e mi ha dato forza in momenti in cui non l’hanno fatto in tanti.
Qual è stato il lavoro che le ha fatto fare l’upgrade economico?
Ho avuto un grande successo con Baby, questo è innegabile. Ha segnato un cambiamento nella mia carriera perché per la prima volta andavo a cambiare anche molto la mia immagine: avevo i capelli molto corti, avevo la barba, uscivo insomma da un’immagine un pochino più adolescenziale. Ha creduto in me il regista, Andrea De Sica, e questo mi ha dato anche molta fiducia nei miei mezzi.
Chiaramente, poi, il successo di un progetto ti permette anche di avere un cachet più alto. Insieme a Baby, per Netflix ho fatto anche Quattro Metà di Alessio Maria Federici, un altro film che è andato molto bene e che è stato molto importante per la mia carriera. Per non parlare di La mia ombra è tua di Eugenio Cappuccio con Marco Giallini, il film in assoluto dove mi sono messo in gioco di più: ho preso 12 chili, ho recitato in toscano e interpretavo un nerd. Anche lì, qualcuno ha visto in me qualcosa che io stesso non vedevo. Eppure è stato, senza falsa modestia, uno dei progetti meglio riusciti che ho avuto la possibilità di realizzare.
Il futuro come lo vede?
Il futuro mi piace vederlo positivo, non c’è altro modo. Il che non vuol dire che tutto andrà sempre bene, ma promettersi di non arrendersi, farsi forza e rimboccarsi quando le cose non andranno bene.
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