Durante l’intervista telefonica, Lucrezia Guidone è in giro per le strade di Lugano, in Svizzera. Sta facendo lì le ultime prove per The City, commedia kafkiana per la direzione di Jacopo Gassmann, che porterà in giro (per varie città italiane e non) fino al 4 aprile. Attrice da oltre dieci anni, la sua carriera inizia a teatro. Passa per i palchi di Pescara, Roma e New York, prima di sbarcare a Napoli, quando entra nel cast di Mare Fuori a fenomeno già iniziato. Facendosi spazio tra un cast già ben formato ed omogeneo e con un personaggio speculare e particolarmente amato da sostituire.
“Non mi sono protetta in nessun modo, sono risultata parecchio dura, perché era importante che ci fosse questo cortocircuito a metà della stagione”, racconta a THR Roma.
Una prova attoriale nuova, per cui Guidone ammette di non essersi fatta sconti, di aver preso la scontrosità del suo personaggio ed averla sviscerata tutta, per tirarla fuori a pieno sullo schermo. Per poi dare sfogo, solo nella quarta stagione, ai sentimenti e alle fragilità. Mare Fuori 4 è disponibile dal 1 febbraio su Rai Play e dal 14 febbraio con due episodi ogni mercoledì in prima serata su Rai2.
Sin dal suo arrivo, Sofia è stata da subito etichettata come un personaggio cinico e disinteressato.
L’ingresso di Sofia è stato a metà della terza stagione, era un personaggio con una precisa funzione drammaturgica. Mi sono sentita un po’ come quei fili che provocano uno shock elettrico all’interno di un ecosistema che funziona bene. C’era armonia rispetto alla figura di Paola Vinci, invece il mio arrivo ha rotto tutto. Ci è voluto coraggio, non mi sono fatta sconti, non mi sono protetta in nessun modo, sono risultata parecchio dura, perché era importante che ci fosse questo cortocircuito a metà della stagione.
Solo in questa quarta stagione vediamo spuntare a poco a poco le sue fragilità.
Quest’anno ho avuto a disposizione una stagione intera. La mia evoluzione non poteva rimanere ferma al punto dell’anno scorso, di un personaggio solo duro ed antipatico. È stato tutto piuttosto inaspettato anche per me. Quando ho letto le sceneggiature, ci sono state delle cose che mi hanno totalmente sorpresa. Prima tra tutte il rapporto con Beppe. O quello con Rosa Ricci, che porterà Sofia a capire una serie di cose di se stessa. Quest’umanizzazione riesce a metterla sullo stesso piano anche dei detenuti, per far vedere che nonostante l’età e il vissuto, ognuno ha le proprie fragilità.
L’umanizzazione di tutti i personaggi è uno dei cardini della serie.
Esatto, è uno dei suoi punti forti. Abbiamo tutti delle ombre contro cui combattere. E Mare Fuori sa anche mostrarle dal contrario, con personaggi assolutamente positivi, diventati dei punti di riferimento – come Massimo, interpretato da Carmine Recano – che si tuffano per la prima volta, anche loro, in un pozzo di mostri. Anche questo è umanizzare.
Sempre a causa di queste sue ombre, Sofia vive con difficoltà anche il rapporto con Beppe. Crede sia per questo che non riesce mai a lasciarsi andare completamente?
Sarebbe stato un po’ surreale lanciarsi in maniera romantica nelle cose, soprattutto per una donna come Sofia. Ho cercato di aderire a delle aperture, che fossero però a modo suo. Ci vuole tempo per aprire delle feritoie, per far passare la luce. Sofia indubbiamente inizia a farlo, ma ci sono delle cose che la trattengono ancora, che la rendono inadatta al rapporto romantico. Con Ivan (Silvestrini, ndr) abbiamo inserito la scena della torta per testimoniare anche il suo modo goffo di chiedere scusa, di avvicinarsi all’altro, di lanciarsi un po’ senza paracadute.
Quanto è complesso dare vita ad un personaggio considerato ostile a tutti?
L’anno scorso, quando ho letto la sceneggiatura, ho capito subito che Sofia sarebbe stata odiata. Penso sia importante che tutti la odino, perché fa parte del disequilibrio che si deve creare per raccontare storie come queste. E questa complessità deriva da un passato molto doloroso: Sofia ha perso una sorella, gliel’hanno uccisa davanti agli occhi.
La mia difficoltà sicuramente è stata quella di raccontare questi suoi tratti senza andare soltanto dentro la sua chiusura, ma cercando di far capire agli spettatori che c’era qualcosa dietro. Mare Fuori racconta anche le chiusure dell’animo umano. Di quando abbiamo paura e proviamo una sofferenza che ci stringe il cuore. Per il resto, però, mi sono anche divertita, perché Sofia dice delle cose talmente atroci che ogni tanto era anche liberatorio.
Quale personaggio le sarebbe piaciuto interpretare se non Sofia?
Il primo che mi viene è Pino, che mi fa molto ridere. Ma forse anche Rosa Ricci. Penso abbia una bellissima potenza, e quest’anno soprattutto, lascia intravedere veramente la sua bella storia.
Che evoluzione si auspica per Sofia? Ha già letto il copione della quinta stagione?
Fare più stagioni di una serie è un viaggio per un attore. Non so ancora niente, se non che a poco a poco mi avvicino a questo materiale umano e inizio a volergli bene. Da un lato mi auspico che continui ad essere complessa, dall’altro le auguro che trovi un suo equilibrio, che soffra un po’ di meno e che si conceda la possibilità di togliersi dalle spalle questo macigno.
Mare Fuori ormai è arrivata in tutto il mondo, la gente si è appassionata a questi personaggi, fino ad renderli tutt’uno con chi li interpreta. Ha raccontato che dall’inizio della terza stagione le persone la fermavano per strada chiamandola Sofia. È ancora così?
Quando scendo a Napoli e vado a fare la spesa, a prendere il caffè, mi salutano tutti come se fossi lei. Mi dicono: “Buongiorno dottoressa Sofia”. Mi fa piacere, perché oggi rispetto al quantitativo di cose interessanti che escono, è molto difficile avere questo tipo di riconoscimento. Prima bastava fare un film o una serie per diventare conosciuto al pubblico.
È più difficile farsi spazio ora?
Ci sono tanti prodotti di successo e molto belli, ma non è detto che il pubblico ti identifichi con il tuo personaggio, oppure che scoppi qualcosa di simile a questo fenomeno. In questo mare enorme di produzioni, la nostra serie è stata un po’ un unicum, ha permesso anche a noi di farci conoscere in maniera forte dal pubblico.
Una cosa che mi sorprende sempre è l’attesa. Molti mi scrivevano “sto fremendo per la quarta stagione, sto facendo il conto alla rovescia per la mezzanotte”, neanche fosse Capodanno. Noi giriamo a Napoli, e fuori dal set ci sono decine di persone che attendono per salutarci. È una cosa da un lato inspiegabile, dall’altro facile da capire, perché questa serie va a toccare delle tematiche a cui le persone tengono. Prima tra tutte, quella del riscatto.
Mare Fuori è una serie in dialetto, tanto connotata a livello italiano e locale. La sua formazione, invece, non è solamente nazionale. Ha studiato a New York, alla scuola di Lee Strasberg. Che percorso è stato il suo?
Tutto è iniziato dopo il mio diploma all’Accademia nazionale d’arte drammatica, la Silvio D’Amico. Sentivo come se ci fosse qualcosa che non avevo attraversato rispetto a ciò che pensavo fosse la recitazione. Mi mancava qualcosa, e in qualche modo mi sono sentita di andarla a cercare oltre i nostri confini.
Com’è stato l’approccio col metodo recitativo?
Spiazzante e fantastico. È stato un modo per completare un percorso solido che avevo iniziato a costruire in Italia. Il fatto di poter recitare in un’altra lingua è stata una spinta fortissima per andare fuori. Oltre ad essere una grande possibilità, è un modo di scoprire un’altra versione di noi, perché quando non parliamo in italiano siamo altri esseri umani, condizioniamo anche il nostro pensiero.
Poi ho avuto modo di lavorare con coach eccelsi. È stato interessante potermi stupire continuamente con approcci nuovi e diversi, soprattutto dopo tre anni di una formazione solida e fondamentale, senza la quale penso che non avrei potuto captare tutto quello che ho recepito là. Anche adesso, quando posso, mi piace tornare a New York. Da dopo il Covid e con Mare Fuori è diventato piuttosto difficile, ma mi piace tornare lì a studiare, a prendere quell’energia che è una giostra senza freni.
Ha mai fantasticato su un tentativo ad Hollywood?
Mi piacerebbe intraprendere dei progetti internazionali, ho un’ambizione forte in questo senso. Però, sa, le produzioni sono un po’ diverse. Sono diverse le tempistiche, la preparazione, la lavorazione. Avendo più tempo sarebbe interessante anche poter esplorare altre cose. Ma in questo momento sono molto legata a quello che sto facendo qui.
Che esperienza è quella di The City con Gassmann?
È una bella sfida, una drammaturgia contemporanea di Martin Crimp. È un copione molto complesso sia nella scrittura che come sfida d’attore. È un viaggio che mi terrorizza, nel quale sento di non avere nessun appoggio.
Quale è il suo mezzo prediletto tra cinema, teatro e serialità?
Va bene tutto, basta che ci sia di mezzo un materiale che mi parli in qualche modo. Alla fine, un mondo prende dall’altro. Il teatro ha a che vedere con il linguaggio, è qualcosa che si scrive dentro l’inconscio. Il cinema ha altre sfumature, è come un’immagine al microscopio.
Io penso di essere un’attrice di teatro, perché vengo da là e perché il mio pensiero si radica in quella zona. Ma allo stesso tempo, con gli anni sto accumulando tanta esperienza dal punto di vista cinematografico e della serialità. Ogni cosa influenza l’altra. Chissà, magari l’aver fatto una serie così vicina ai giovani potrà servire per portarli a teatro.
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